DELLA DIREZIONE D’ORCHESTRA E SUOI DERIVATI – parte 1

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DELLA DIREZIONE D’ORCHESTRA E SUOI DERIVATI – parte 1

DELLA DIREZIONE D’ORCHESTRA E SUOI DERIVATI – parte 1

Come già preannunciatovi, la direzione d’orchestra sarebbe stata uno degli argomenti dei quali maggiormente avrei dissertato.

Non fosse altro che, da 28 lunghi anni quasi, la frequento, con esiti altalenanti tra il decente ed il molto buono, a seconda di quello che dirigo. Ma siccome io non dirigo per lavoro, ovvero non mi ci debbo mantenere come occupazione precipua e prevalente – come alcuni se non tutti i miei colleghi – , e quindi dirigo solo quello che mi interessa, che conosco bene e soprattutto che mi piace e mi dà piacere dirigere, è ovvio che i risultati siano decisamente migliori di quelli di un routinier. E di routiniers, con rispetto parlando non mi si fraintenda, ribadisco, c’è pieno il mondo e si vede.

Dirigere non è cosa semplice. Ma appare così semplice che tutti pretendono, prima o poi, di farlo.

Ahinoi, Direttore si nasce, non si diventa. Direttore o si è o non lo si è.

Il non esserlo presuppone risultati scarsi, difficili ad ottenersi, anonimato interpretativo e sinanche personale, frustrazione.

Esserlo comporta grande responsabilità perché dal grande potere, come diceva Spiderman, quello deriva. Enorme responsabilità.

Che molti, ignoranti, credono invece gravare solo sull’orchestra. La quale da molti è intesa come corpo autonomo, che va da sé, che non ha bisogno del coglione su un predellino e che ondeggia un pezzo di legno di balsa sù e giù come un forsennato, solo per dimostrare il suo potere. E molti a riprova di questo sottolineano che molti direttori non hanno la più vaga idea di come funzionino tutti gli strumenti che sono raggruppati lì davanti, conoscendo a malapena pianoforte, composizione (poco e male), canto, armonia e contrappunto il giusto tanto nessuno vuol diventare Beethoven o Stradella.

Nel mondo della direzione d’orchestra, due soli, a memoria d’uomo, furono i direttori che conoscevano tutte le tecniche esecutive di tutti gli strumenti dell’orchestra: uno fu il grande e compianto direttore triestino Victor De Sabata – uno dei geni italiani della bacchetta: ahimé fu fascista e legato ai fascisti, arrivò Toscanini in Italia dopo la guerra ed il lavoro di De Sabata con la Scala venne cancellato o poco meno. L’altro fu il compianto Lorin Maazel, che divideva la sua fama tra genio e antipatia pura, in un mix che lo rese rispettatissimo ma inviso alle orchestre di quasi tutto il globo. Con interpretazioni lasciate alla posterità che poco emozionano ancor oggi, quando non ci sono direttori di potenza tale da arrivare al polpaccio destro di Maazel. Il quale, ripeto, era considerato un ottimo direttore (eccelso in alcuni repertorii, meno in altri) ed un tecnico di sapere talmente assoluto che irritava gli strumentisti.

Ma nonostante questo fatto, noto nel mondo della storia dell’arte direttoriale, non è detto che siccome non conosci la tecnica di tutti gli strumenti, allora semplicemente sei lì a caso, fai cose inutili, sei rimpiazzabile o evitabile. No, e più avanti, in modo pedissequo e precisissimo, vi spiegherò ogni perché ed ogni prova di ciò che dico.

Ma, tornando agli sbacchettatori, il resto dei grandi, da Toscanini a Karajan, da Furwaengler a Bohm, da Klemperer a Walter (il fatto che tra i grandi io non annoveri nessuno degli attuali grandi nomi ve la dice lunga sulla mia considerazione sulla attuale genia dei miei “colleghi” se posso permettermi di chiamarli tali. Ma avendo diretto più di 400 concerti e performances, forse si, posso), non avevano l’idea di come si cambiassero le arcate dei violini, di come fosse un suono di trombone in seconda o in terza posizione, di come funzionasse il fraseggio di un corno o il tubaggio dello stesso. Nozioni scolastiche ma niente di più: e ben si guardavano quindi dall’intromettersi nello specifico: noto fu il commento di Franco Fantini, Spalla della Scala, su Karajan, “Non capiva niente di violino ma semplicemente ci diceva che tipo di suono voleva e noi lo facevamo…”. Tutti pianisti, qualcuno cantante pure, altri pure compositori. Ma niente di più: quello che c’era però bastava perché la direzione d’orchestra è arte che giace altrove. Parleremo anche di questo misterioso Shan-gri-là, l’altrove dove giace l’arte del Direttore d’Orchestra…

Muti, uno dei “grandi” di oggi, secondo alcuni, implora sempre i direttori di leggere la partitura al pianoforte e di eseguirla al pianoforte. Solti diceva sempre di leggere la partitura seduti, a tavolino, e cantare le singole parti che si stanno leggendo. Abbado alternava i metodi. Nessuno di essi ha mai avuto il coraggio di ammettere che, studiando dei pezzi sulla carta, si aiutasse ascoltando le registrazioni che dello stessa pezzo avevano realizzato i propri colleghi. Nessuno. Meno uno: il più grande di tutti, Karajan, il quale ammetteva spudoratamente e senza vergogna che, prima di dirigere l’opera italiana, doveva ascoltare le registrazioni di Tullio Serafin. Prima di dirigere musica francese, ascoltava le registrazioni di Charles Munch (grande direttore francese, che fu a capo della Boston Symphony Orchestra), prima di dirigere i russi, ascoltava Mravinski e l’Orchestra Filarmonica di Leningrado, che amava particolarmente in quel repertorio. Il tutto per sentire come i colleghi “risolvessero eventuali problemi”. Ognuno aveva i suoi sistemi, Karajan aggiungeva anche l’ascolto, caratteristica superba e ahime sottovalutata dai molti miei colleghi: che molta musica fanno, pochissima ne conoscono e ancora meno ne hanno ascoltata e apprezza, amata e conosciuta dall’altra parte della barricata…Ma Karajan no, egli ascoltava, e ascoltava i suoi competitors.

Poi montava sul podio e, risolvendo problemi, dava la sua lettura personalissima. Costruita su trucchi di tecnica direttoriale, su escamotages di fraseggio e di connessione delle frasi che io, e lo confesso pubblicamente per la prima volta, ebbi la possibilità incredibile di apprendere non appena 19enne.

E non grazie a studi regolari o come un percorso di assistente del Gran Salisburghese,  ma grazie al mio lavoro di consulente finanziario (subito dopo la scuola, mentre frequentavo parimenti l’università alla facoltà di Lingue).

Eh si perché un gran bel lavoro, che mi dava un sacco di soldi di stipendio, mi permise di coltivare l’hobby della Musica e di acquistare, dopo ricerche e collezionismo forsennato, un patrimonio che allora era a disposizione mia e di altri pochi fortunati. Ovvero le registrazioni, prima in VHS poi in Laserdisc, delle prove dei grandi direttori: un cimelio video di una importanza tale e tanta da essere ancora vivo nella mia mente. Un cimelio che io e davvero pochi altri al mondo, animati dal mio stesso fuoco sacro (quello di essere un direttore!) e con i miei stessi mezzi, potevamo permetterci.

Tu guardavi e studiavi quelle prove e capivi: proprio come se tu stessi facendo un seminario, un corso (che tanto oggi tanti fanno, a caro prezzo per gli alunni, insegnando poco o niente ma facendosi sempre un secondo stipendio). Karajan insegnava non solo a superare ostacoli ma soprattutto a fraseggiare, ad ottenere un certo tipo di suono, un certo tipo di effetti, un certo tipo di incastro delle frasi

Il problema è che le prove, SENZA SOTTOTITOLI, erano o in  lingua tedesca, o in francese o in Inglese, se non – ma pochissime – in Italiano: ma parlando io le tre lingue di cui sopra, e un pochino la mia lingua natia, il gioco per me era facile e lo resta tuttoggi. Ma anche da qui si vede che dal niente non viene niente.

Seguivi quelle prove, quelle estenuanti sessioni in cui un passaggio di tre battute era ripetuto all’ossessione pur di raggiungere quel determinato risultato espressivo, tecnico ed artistico, ed imparavi. Cosicché quando circa 4 anni più tardi, per la prima volta, mi trovai davanti un’orchestra, non dico che sapessi cosa fare esattamente – gli inizi furono e saranno sempre tragici per tutti – ma ero a buona metà strada. Usavo già da allora il metodo di leggere la partitura e cantarla, son sempre stato un pessimo pianista e dopo essermi quasi affettato i tendini del braccio destro in un incidente teatrale (durante una prova in teatro – ho praticato per una ventina di anni anche il teatro di prosa, e come attore e come regista e produttore, nonché come autore – in un momento di ilarità, inseguendo un collega, infilai dritto in una porta a vetro e mi salvai il braccio per miracolo, pur lesionandomelo), quindi il sistema che funziona è quello. E sinceramente trovo inutile ancora oggi, al solo pensiero ed almeno per me (ma sono in ottima compagnia) il mettermi al pianoforte e risolvere pianisticamente i problemi che ne so della IV di Brahms o del Requiem di Mozart. Ho ahime imparato, e a caro ed indimenticabile prezzo, che una cosa è quello che fai per tuo conto, un’altra è quello che fai sul podio quando sei sul podio. E lì le cose cambiano non poco.

Prove di Karajan prima, poi trovai filmati e prove audio di Furtwaengler, di Carlos Kleiber, di Bruno Walter, perfino di Toscanini (le famose registrazioni delle prove che oggi fanno ridere così tanti ascoltate su youtube: ecco, sappiate che io le ascoltai tutte in disco vinile nel 1990/1991, ho sempre quei reperti splendidi. E quanto capivi, come capisci ancora oggi, ascoltandole!): un patrimonio di sapere, una serie sterminata di corsi e seminari, uniche. Una meraviglia per chi, come io fui, sapeva sin da piccolo di voler essere un Direttore d’Orchestra. E esercitavo arte direttoriale e lingue straniere, era un full immersion multiculturale.

Nei miei colleghi, titolati e non, trovo sempre la stessa angoscia: quella di affrontare la materia sonora e di levarci le gambe, in preda spesso a paure terribili.

In alcuni di essi, trovo una angoscia ancora più grave: levarci le gambe in modo del tutto originale, quasi a voler dire “chi ascolta deve sapere o deve ricordarsi la MIA interpretazione”. E queste due situazioni provocano danni assurdi, specie quando la seconda di esse è realizzata in barba non tanto alla lettera (quasi sempre) ma allo spirito (sempre) del pezzo che si dirige. Ma di questo vi parlerò più avanti, con esempi anche di altissimo rango.

A me non è mai successa né la prima né la seconda cosa: monto sul podio e da quel momento sono la persona più felice del mondo.

E In prova, con le mie amiche ed amici della Orchestra Filarmonica di Lucca (una delle sole 6 orchestre che ho diretto in 28 anni di carriera e più di 400 concerti: il perché, tenete a mente l’assunto, ve lo spiegherò più avanti…), dove creiamo il suono, l’intepretazione e diamo vita alle idee musicali che come direttore ho e devo esprimere alla mia orchestra (potere e resposabilità).

E quando c’è il concerto e c’è il pubblico: l’unico elemento che, se mai avessi un milligrammo di paura, me la toglie del tutto perché il pubblico sempre e comunque mi esalta. Mi piace sentire dietro di me e davanti a me la eguale tensione emotiva, che poi è quella che ti dà lo stimolo e l’entusiasmo. Che strano: leggi le memorie di Karajan e ti rendi conto che questo sentimento fanciullesco e un po’ guascone lo aveva anche lui…Ti senti in ottima e superiore compagnia.

Altro spunto che approfondiremo: “Sul podio, qualsiasi cosa tu faccia, anche l’errore più grande, fallo con convinzione” diceva un grande direttore che ho già citato, il britannico Sir Thomas Beecham.

Che non solo era un grande direttore – anche egli non diplomato e autodidatta – ma era anche un “wit” ovvero uno “genio” unico per humour e eloquio. Uno che sul podio sapeva cosa voleva e soprattutto sapeva spiegarsi per ottenere cosa voleva. “La prima prova, leggiamo il pezzo da capo a fondo, senza fermarsi. L’orchestra fa qualche errore. Poi lo leggiamo una seconda volta: l’orchestra non fa errori. Poi prendo singoli momenti, li enfatizzo, li limo, li perfeziono e tac, l’orchestra è pronta per il concerto. Ecco perché la maggior parte dei direttori di oggi han bisogno di quattro prove, io solo di due!” Questa è una delle teorie più celebri di Beecham, una teoria che funziona ma che fa leva su un fattore. Che i musicisti che tu hai a disposizione siano esperti, bravi e conoscano almeno minimamente il repertorio. E soprattutto, last but not least, che siano motivati da te, direttore, a rendere quello che tu gli chiedi.

Ma dopo 28 anni quasi di direzione, sapeste come è facile lavorare con bravi musicisti su un pezzo ( e con la mia orchestra, abbiamo un repertorio di quasi 500 brani eseguiti insieme, tra opere, sinfonie, concerti, arie e singoli pezzi, dalle ouvertures ai valzer) e sapere già dove mettere le mani, sapere già i punti critici e lavorarci subito, quasi a memoria. Questo è un patrimonio che si acquista dopo anni ed anni. E che si acquista ancor meglio, e qui da una parziale spiegazione del perché io lavori sempre con le stesse orchestre, con gente che tu conosci benissimo e che ti conosce benissimo. Gente con cui hai primariamente un rapporto UMANO.

Perchè, e vi lascio con questo assunto, dirigere – come diceva Abbado, uno dei “grandi” dei nostri giorni – è davvero un atto di amore: per la Musica, indubbiamente. Ma tra direttore e orchestra, anche. Ma questo è un principio un po’ duro da sostenere sempre…

Ma  questa è un’altra storia e, assieme a tante altre suggerite, la racconteremo un’altra volta.