«E diedi il canto agli astri, al ciel»

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«E diedi il canto agli astri, al ciel»

«E diedi il canto agli astri, al ciel»

La luce naturale nei libretti musicati da Giacomo Puccini.

Turandot è l’ultima tappa di un formidabile percorso creativo. Ormai in una fastosa maturità, la drammaturgia pucciniana ha affinato tutti gli strumenti a sua disposizione. Uno di questi è luce, ed in particolare la luce diurna e notturna in tutte le possibili declinazioni. Questa si dimostra non soltanto uno scontato fondale alle gesta dei personaggi, ma un elemento attivo. Non soltanto per l’interazione con lo svolgimento della trama, ma per saper talvolta assurgere a movente principale dell’azione. Esemplare in tal senso, Turandot ha una lunga storia che inizia, peraltro stentatamente, già con Le villi.

Si cercherà dunque di evidenziare la qualità e la quantità del ruolo giocato dalla luce naturale nei libretti confezionati per il grande operista lucchese. La loro frequentazione ha insinuato lentamente il sospetto che in questi libretti venisse impiegato con sistematicità ed in modo assolutamente originale uno strumento teatrale, la luce appunto, sino ad essi poco sfruttato. Senza per ora risalire troppo indietro nel tempo, scorrendo i libretti scritti da Arrigo Boito per Giuseppe Verdi si nota che, eccettuata qualche laconica tradizionale didascalia del tipo «è notte. Un lume acceso sul tavolo» (Otello atto quarto) o «è l’ora del tramonto» (Falstaff atto terzo), i riferimenti a situazioni luminose sono veramente centellinati.1 Col senno del poi anche il maestoso inizio dell’Otello si prestava a ben altre digressioni dell’ «è sera. Lampi, tuoni, uragano», mentre per l’atto terzo parte seconda del Falstaff, pur riferendosi ad una situazione evolutiva, non possiamo ancora parlare di eccezione che conferma la regola: «E’ notte. Si odono gli appelli lontani dei guardaboschi. Il parco a poco a poco si rischiarerà coi raggi della luna». Un’analoga considerazione deve essere fatta per la librettistica coeva: nella Cavalleria rusticana di Giovanni Targioni Tozzetti (1890) non viene neanche rammentato il particolare momento di luce del giorno, mentre il sole fa una rapida apparizione come tipica metafora designante Lola («bianca come fiore di spino | quando t’affacci tu, s’affaccia il sole») e le «belle occhi-di-sole». Interessante notare poi come la lunghissima didascalia all’inizio dell’atto primo di Pagliacci (1892), eccettuati «due o tre file di lampioncini di carta colorata sospesi attraverso la via da un albero all’altro», non faccia mai riferimento a problematiche di luce, ed in particolare di luce naturale. All’inizio della scena prima si legge che «sono tre ore dopo mezzogiorno, il sole di agosto splende cocente», ma da questo momento in poi Leoncavallo sembra completamente disinteressarsi al dinamismo dell’astro diurno.

Si potrebbe rilevare che i problemi di scenotecnica ed illuminotecnica potevano essere affrontati e risolti non tanto nei libretti, deputati sostanzialmente ad illustrare lo svolgimento della trama, bensì nelle ‘disposizioni sceniche’ che sembrano imporsi a partire da metà Ottocento proprio per la rappresentazione delle opere di Giuseppe Verdi.2 Il problema di fissare su supporto cartaceo ciò che prima era segreto di bottega, «anche se divulgabile e divulgato»,3 viene risolto in Francia con i ‘livrets de mise en scène’, adottati a partire dal 1829-30.4 Sono gli anni in cui si afferma definitivamente il ‘grand opéra’, in virtù dell’accoppiata Scribe-Meyerbeer, e già le lunghissime didascalie dell’atto terzo di Robert le diable (1831), oltre a fungere da eco per i sicuramente più tecnici ‘livrets’, denotano un attenzione alla messa in scena molto distante da quella della coeva opera italiana. La parte riservata alla luce naturale è peraltro decisamente modesta, e solo in un caso assume un certo rilievo: «E’ notte. Le stelle brillano, e le rovine non sono rischiarate che dalla luna».5 Stesso identico discorso vale sia per Les Huguenots (1836) sia per la postuma L’Africaine (1865).

Perlomeno in questo opera francese ed italiana non sono poi così distanti: nell’atto primo scena prima di Norma (anch’essa, come Robert le diable, del 1831) leggiamo: «è notte; lontani fuochi trapelano dai boschi», mentre la scena quarta dove campeggia «Casta diva» ha un carattere del tutto eccezionale. «La luna splende in tutta la sua luce. Tutti si prostrano. NORMA – Casta Diva, che inargenti | Queste sacre antiche piante, | A noi volgi il bel sembiante | Senza nube e senza vel. | Tempra tu de’ cori ardenti, | Tempra ancor lo zelo audace, | Spargi in terra quella pace | Che regnar tu fai nel ciel». Passeranno decenni prima che la luce abbia uno spazio così importante, e non solo all’interno di un libretto d’opera italiana.

«E’ assai probabile che il sistema francese dei ‘livrets de mise en scene’ fosse noto in Italia a partire, almeno dal 1831, ossia dall’epoca della trasmutazione toscana del Guillaume Tell. Che venisse adottato è, invece, controverso».6 La prima disposizione scenica sicuramente elaborata in Italia fu quella di Un ballo in maschera nel 1859.7 Verdi dimostra comunque l’interesse per dettagli scenici di carattere luminoso quantomeno a partire dal 1845. Citate in una lettera dell’impresario Alessandro Lanari, queste sono le parole del musicista: «quella [tra le scene] che desidererei sublime è la seconda alla scena VI che è il principio della Città di Venezia: sia ben fatto l’alzare del sole, che io voglio esprimere colla musica».8 Che le disposizioni sceniche potessero efficacemente affrontare problematiche di natura luminosa lo confermano quelle dei Lituani di Ponchielli. In esse leggiamo che «l’apparizione sarà illuminata da 4 fuochi di bengala azzurro. Nella quinta 2 vi sarà in alto una macchina elettrica, i cui raggi andranno a colpire il corpo di Corrado».9

Oggetto di riflessione sarà dunque il motivo per cui ad un certo punto si sia sentito l’esigenza di infarcire il libretto di notazioni di carattere atmosferico, quando queste potevano effettivamente essere segnalate, anche con maggiore precisione tecnica, nelle ‘disposizioni sceniche’. La mole degli esempi desunti dai libretti musicati da Puccini impone di porre il problema, anche se non saranno trattati i rapporti fra soluzione scenico-luminosa ed il suo trattamento musicale. Questo limite non è in contrasto con il modo di lavorare di Puccini. Prima di accingersi a far musica, egli aveva bisogno che il libretto, se non definito in tutti i particolari, fosse almeno in avanzato stato di gestazione. Ancora in una lettera del 1920 diretta al librettista di Turandot Giuseppe Adami perché sia sollecito nell’inviargli l’elaborato, Puccini scrive: Non avendo libretto come faccio della musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena. Potessi essere un sinfonico puro. Ingannerei il mio tempo e il mio pubblico. […] Mi scrivono lettere tanto carine e incoraggianti ma se invece di queste arrivasse un atto di questa Principessa di princisbecco o non sarebbe meglio? Mi ridareste la calma, la fiducia e la polvere sul pianoforte non si poserebbe più, tanto pesterei, e la scrivania avrebbe il suo bravo foglio a mille righe!10

Conseguentemente, questa analisi sul ruolo giocato dalla luce naturale si propone di approfondire inoltre una brillante ma discutibile intuizione di Mosco Carner circa le modalità ed i tempi compositivi di Puccini. Nell’ancora fondamentale biografia critica sull’operista lucchese, egli afferma: Puccini vedeva un soggetto prima di tutto in termini di azione drammatica e solo in un secondo momento in termini operistici, vale a dire concepiva un’opera soprattutto come un dramma parlato al quale la musica doveva prestare una terza dimensione, mirando in tal modo al dramma musicato e non al dramma musicale (nel senso wagneriano del termine), donde lo straordinario effetto scenico dei suoi lavori.11

Carner torna in seguito sull’argomento, affermando che Puccini non mirava al dramma musicale ma al dramma musicato, il che non è affatto la stessa cosa, ma a suo modo tendeva anche lui ad un Gesamtkunstwerk nel quale l’intero apparato scenico – canto, recitazione, parole, mimica, gesto, movimento, costume, scene ed illuminazione – si affiancasse ai cantanti e all’orchestra per creare un maximum di effetto drammatico. Insisteva per esempio sulla necessità della massima chiarezza della dizione e sul fatto che gli effetti di luce dovessero seguire da vicino le svolte della musica ed essere regolati «da un orecchio attentissimo».12

Questa distinzione operata da Carner fra dramma musicale e musicato, lo porta poi a concludere che Puccini è un «uomo di teatro (da non confondere col drammaturgo musicale)».13 Ingentilendolo, in tal modo egli perpetua un giudizio ascrivibile nientemeno che a Fausto Torrefranca, il quale, nel suo acutissimo oltre che astioso libello Giacomo Puccini e l’opera internazionale, conclude: «quindi egli è uomo di teatro, ammettiamolo pure, ma soltanto nel senso rudimentale e pratico della parola».14 Come si può constatare, fra le varie componenti che creerebbero «un maximum di effetto drammatico» citate da Carner vi è l’illuminazione, campo d’indagine del presente studio. Privilegiando particolarmente l’attenzione ai dati di luce naturale, l’analisi in senso cronologico dei libretti da lui musicati metterà anche a fuoco se e come Puccini debba definirsi ‘uomo di teatro’.15 Non si nasconde quindi anche il tentativo, quando questo non risulti disperato, di raggiungere l’obbiettivo cui accenna Mercedes Viale Ferrero: «[…] naturalmente, si dovrebbe cercare di sentire la voce (sommessa ma non inudibile) dello stesso Puccini. Indirettamente, questa filtra nelle didascalie sceniche dei suoi vari e tiranneggiati librettisti».16

Già nelle Villi è notevole l’attenzione alle situazioni di luce naturale in cui si cala lo svolgimento dell’azione. La didascalia all’inizio dell’atto primo precisa che «è primavera. Alberi in fiore». L’aria primaverile sembra ben correlarsi all’atmosfera gioiosa della festa per l’eredità ricevuta da Roberto, che dunque promette ad Anna di sposarla. I «foschi presagi» che turbano la mente della ragazza diventano però realtà nell’atto secondo; «ed al cader del verno | Ella chiudeva gli occhi al sonno eterno»; «Raggio di luna è il pallor del suo viso». E in una notte invernale si prepara  la vendetta che ricadrà su Roberto. Infatti «nella selva ogni notte la tregenda | viene a danzare, e il traditor vi aspetta; | poi, se l’incontra, con lui danza e ride | e, nella foga del danzar, l’uccide». L’insieme offerto da foresta, notte e sovrannaturale ha lontani ascendenti in Der Freischutz di Weber. Già nell’atto primo scena seconda, rivolgendosi a Max, Gasparo consiglia: «Amico; ascolta | Ascolta: nel quadrivio – della foresta oscura | Va venerdì di notte – a compier la scongiura | Del negro cacciator. | Traccia un magico cerchio».17 Comparsa già nell’atto primo scena quarta, la luna assume poi un ruolo protagonistico nelle scene finali dell’atto secondo, ambientate nelle Gole del Lupo. All’inizio della scena quarta «il disco lunare risplende pallido»; poi «la luna è quasi completamente oscurata dalle nuvole»; infine «una nube passa sulla striscia della luna, in modo che tutta la scena non è rischiarata che dal fuoco, dagli occhi della civetta e dal legname putrefatto dell’albero».

Non deve stupire la filiazione di elementi Sturm un Drang nelle Villi, essendo questa una leggenda dalle origini tedesche. Si ricorda che non solo la poetica, ma la teorizzazione filosofica del ‘sublime’, inteso come piacere derivante da situazioni di pericolo e di terrore, ha avuto come culla la cultura anglosassone, espressasi con gli scritti di Burke e Kant.18 E tra le fonti del sublime, oltre la vastità, la magnificenza, va annoverata la luce, particolarmente nelle tinte oscure e fosche, esaltata anche pittoricamente da artisti quali Caspar David Friedrich (1774-1840) e Karl Friedrich Schinkel (1781-1841). Un’eco palpabile di questa tradizione è avvertibile nell’opera wagneriana che, per la prima volta, concede ai momenti del giorno ed ai mutamenti di luce uno spazio assolutamente inusuale. Nel terzo atto di Tannhäuser, Wolfram così canta: «Come presagio di morte, il crepuscolo copre la terra, | avviluppa in nera veste la valle; | l’anima, che brama quelle altezze, | trepida nel suo volo fra notte e orrore. | Qui splendi tu, più bella fra le stelle, | invii la tua soave luce da lontano; | il tuo caro raggio divide il crepuscolo notturno, | e benigna mostri l’uscita della valle. […] Si è fatta notte piena […]».19 Le sensazioni di morte evocate dall’oscurità hanno salde radici nel ‘sublime’, strumento che Wagner adotterà sistematicamente, piegandolo anche ad improvvise squarci di luce solare: «[…] Le nebbie si addensano fitte […]. All’improvviso la nube si disperde; Donner e Froh si fanno visibili; dai loro piedi, con luce abbagliante, si diparte un arcobaleno in forma di ponte, oltre la valle fino alla rocca, la quale, illuminata dal sole al tramonto, risplende nel più luminoso lucore. […] Wotan e gli altri dei si perdono senza parole nella visione meravigliosa». Queste didascalie in chiusura de L’oro del Reno sono un importante precedente del terzo atto di Parsifal, quando, dopo una «luce antimeridiana» ed una «cupa illuminazione», si assiste alla «dolce, graduale illuminazione del “Gral”. Crescente oscurità nel fondo, contemporaneo aumento della luce dall’alto», cui segue il «raggio luminoso: abbagliante splendore del Gral”. Si pensi poi all’esaltazione che investe tutto il Tristano, ed in particolare il terribile secondo atto dove la ‘casta e dolce notte’ è fieramente contrapposta al «perfido giorno, | al più duro nemico», cui segue: «Come tu la luce, | oh potessi io spegnere | il lume al giorno insolente, | per vendicare le sofferenze d’amore! | C’è una pena, | c’è un dolore, | ch’esso non ridesti | col suo splendore?».20 A prescindere dall’interpretazione dello ‘strumento luce’ nelle mani di Wagner, per la prima volta esso assume un rilievo senza precedenti, che i posteri non potevano ignorare.

Con le Villi abbiamo dunque una lampante conferma che l’attenzione ai fenomeni naturali, e precipuamente alla luce, non ha matrici italiane bensì transalpine. Questo permette di comprendere l’eccezionalità di quanto segnalato in Norma: è infatti da rilevare che la scena si svolge «nelle Gallie, nella foresta sacra e nel tempio di Irminsul». Ci voleva dunque una storia ambientata al di là delle Alpi, in una foresta, e derivata da una tragedia di un francese, Alexandre Soumet, per permettere a Felice Romani e Vincenzo Bellini di dar vita ad una scena assolutamente straordinaria, non a caso entrata e mai uscita dal repertorio.

Circa le Villi, puntualmente Carner nota come «sembra che Fontana sia stato una specie di esperto di cose tedesche, perché a lui si devono le traduzioni dei libretti di Tiefland e di varie operette di Lehar, fra cui la Vedova allegra».21 Non stupisce dunque che la didascalia seguente è tutta imperniata su dati paesaggistici ed atmosferici: «Durante il secondo tempo si scorge lo stesso paesaggio dell’atto primo, ma è il verno; è notte; gli alberi, sfrondati e stecchiti, sono sovraccarichi di neve; il cielo è sereno e stellato; la luna illumina il tetro paesaggio. Le Villi vengono a danzare, precedute da fuochi fatui che guizzano da ogni parte e percorrono la scena”. Se il tepore di una giornata primaverile funge da festosa cornice all’azione, la fredda notte invernale vuole rispecchiare la torbida situazione interiore di Roberto e presagire l’imminente vendetta delle Villi. La luna è associata prima al pallore della morta e poi permette al paesaggio di emanare un senso di attesa angosciosa che sfocerà nella tregenda finale. Essa connota cioè ostilità nei confronti dei personaggi, accompagnandoli verso un destino che ha come ineluttabile meta la morte. La natura e la luce sono dunque emanazioni dello stato d’animo dei due amanti, che pilota tutto quanto ruota loro attorno. Nonostante il soggetto desunto dalla letteratura tedesca, Le villi si conferma opera ‘a personaggi’ tipica della tradizione romantica italiana, che ha in Verdi il suo portabandiera.22

L’atto primo di Edgar è preceduto da una sorta di avvertimento in versi impregnato di riferimenti a situazioni di luce: «Edgar siam tutti, poiché conduce | d’ognun sul tramite – vital la sorte, | con vece assidua, – tenebra e luce, | amore e morte». Tenebre e luce sono in una tipica relazione chiastica con amore e morte, abbinamento schiettamente romantico ribadito in chiusura di poesia: «Ché stan vicini – tenebra e luce, | morte e amore». Nella seconda e terza quartina si contrappongono invece due emanazioni di luce quali il raggio d’amore e la fiamma erotico – sessuale: «Guai se di qualche – volgar miraggio | schiavi ci rende – la stolta brama | quando, degli anni – nel fior, il raggio | d’amor ci chiama! | Guai se alla luce – d’amor serena, | che assurger l’anime – può a voli immensi, | noi preferiamo – la fiamma oscena | che incendia i sensi!». Siamo comunque allo stadio della metafora, del tradizionale accostamento fra morte e tenebre, amore e raggio luminoso, oscenità e fiamma ardente; quest’ultimo è riproposto da Edgar all’inizio dell’atto secondo. Nella didascalia iniziale, i raggi della luna preludono alla squallida atmosfera interiore di un Edgar sul punto di imporre a sé stesso di lasciarsi alle spalle ‘l’abisso immondo’ in cui è sprofondato per la peccaminosa reazione intrattenuta con la perfida Tigrana. Per Ferdinando Fontana, librettista anche delle Villi, la luna ha nuovamente connotati negativi che bene le permettono di partecipare a situazioni di disagio interiore. Nel terzo atto di Edgar incontriamo anche un tramonto: «il cielo fiammeggiante è solcato da nere strisce di nubi”. Anche qui l’atmosfera infuocata è in relazione simbolica all’ardente dramma passionale, mentre il nero delle nubi prelude alla tragedia che è sul punto di consumarsi. Questi traslati, pacchiani e privi di qualsiasi aspirazione all’originalità, vogliono intonarsi al rovente finale, con il gran colpo di scena dell’uccisione di Fidelia da parte di Tigrana. Nonostante l’articolazione e le dimensioni di Edgar siano ben più ambiziose di quelle delle Villi, per quanto concerne le problematiche connesse alla luce, si può notare chiaramente un arretramento sia per la capacità di correlazione ai personaggi in scena, sia da un punto di vista meramente quantitativo. Ma, sempre rispetto alle Villi, non viene alterato il ruolo dei fenomeni naturali, totalmente in funzione dei personaggi e senza nessuna ambizione verso funzioni caratterizzate da maggiore indipendenza od autonomia.

Manon Lescaut si apre con «ave, sera gentile, che discendi | col tuo corteo di zeffiri e di stelle; | ave, cara ai poeti ed agli amanti». L’ambientazione serale compare per la prima volta in un libretto di un’opera di Giacomo Puccini ed è senz’altro novità ascrivibile all’abbandono di Ferdinando Fontana in qualità di librettista. Questi privilegiava forti contrasti di luce con funzione semantica e l’atmosfera truce delle due opere precedenti è un lontano ricordo: anche la ‘gentilezza’ della sera conferma la svolta nella carriera pucciniana, procedente verso una raffinatezza di tinte sconosciuta alle Villi e ad Edgar, ma tipica delle opere a venire. Le Fanciulle cantano che «vaga per l’aura | un’onda di profumi, | van le rondini a voi | e muore il sol. | E’ questa l’ora delle fantasie | che fra le spemi lottano | e le malinconie». Puntualmente, con una visione più equilibrata della funzione della luce, con l’attenzione ad un momento della giornata che funge da transizione fra il giorno e la notte entrano in gioco stati d’animo non ben definiti e lontani dalle passioni scolpite a tutto tondo che abbiamo notato nelle prime due opere. Anche la notte non è più, come nelle Villi, gelida oscurità ricca di lugubri misteri, ma ammette ora la gaiezza della vita mondana. «Danze, brindisi, follie, | il corteo di voluttà | or s’avanza per le vie | e la notte regnerà; | è splendente – ed irruente, | è un poema di fulgor; | tutto vinca, – tutto avvinca | la sua luce e il suo furor». Questa attenzione all’atmosfera in cui i personaggi si trovano ad agire è una novità assoluta nel panorama librettistico italiano dell’epoca. Manon è dunque tappa fondamentale nel percorso creativo di Puccini, che in futuro approfondirà e darà ancor maggior rilievo al dato ambientale.

Portatrice dunque di gaudio, la notte conserva comunque aspetti torbidi: la macchinazione di Geronte per rapire Manon viene concepita ed intende realizzarsi nel buio della notte. Nell’atto quarto, questa si riprende tutti i suoi connotati di negatività e di terribilità: «Muoio: scendon le tenebre. | Su me la notte scende». E in chiusura: «Addio… cupa è la notte… ho freddo…| era amorosa | la tua Manon? Rammenti? dimmi… | la luminosa mia giovinezza? Il sole più non vedrò…». Già pienamente affermato nelle Villi, il tradizionale abbinamento sole/vita e tenebre/morte viene qui riproposto in situazione peraltro completamente mutata. Se nel libretto del Fontana ‘l’aer gelato’ e ‘l’orrenda notte’ preparavano una vendetta, in Manon il contrasto notte/sole vuole esaltare la drammaticità del momento ed accompagnare lo sconquasso interiore di De Grieux, «pazzo di dolore». Questa ambivalenza di connotazioni legate alla notte può anche essere derivata dallo straordinario concorso di librettisti che parteciparono alla confezione di un libretto che, per la sua natura composita, fu stampato senza essere firmato. Si deve nuovamente rilevare, come per le Villi ed Edgar, che, con l’importante eccezione dell’inizio, la luce e l’atmosfera che ne consegue sembrano essere una proiezione dei personaggi, che questi si portano dietro come ineliminabile ma dipendente ombra.

Nella Bohème, già i «cieli bigi», gli accenni alla neve, tutta la scena al caminetto con il dramma di Rodolfo che produce il «lieto baglior» e la «fiammata», preparano lo sviluppo dell’azione in un’ottica che si direbbe proprio ‘luminosa’. Più che interessare un’illuminazione già precaria (la didascalia iniziale rammenta solo due candelieri), il «comincia a far sera» ha connotazioni emotive e la funzione di preparare un’atmosfera raccolta, consona allo sbocciare di un idillio. Già manifestatasi con Manon Lescaut, Bohème sviluppa la preferenza per momenti della giornata che fungono da più o meno rapida transizione tra situazioni di luce costanti e durature. Anche in questo caso, la sera come arco di volta fra giorno e notte. Dopo l’episodio di Benoit, si ritorna al «buio pesto» e «Rodolfo… depone il lume… e si mette a scrivere dopo aver spento l’altro lume rimasto acceso». Ecco dunque Mimì, alla quale, guarda caso, «si è spento il lume». Rodolfo accende riconsegna acceso il candeliere a Mimì, ma «il lume vacilla al vento» ed infatti si spegne, come poi quello di Rodolfo. Tutto questo evidenzia già la distanza che intercorre fra Bohème e le opere che la precedono, essendoci una maggiore compenetrazione fra atmosfera e personaggi, che sembrano respirare e maggiormente subire il condizionamento dei dati ambientali.

L’azione è ormai ben incanalata nei binari dell’innamoramento. Ad un certo punto, «Mimì si è avvicinata ancor più alla finestra per modo che i raggi lunari la illuminano: Rodolfo, volgendosi, scorge Mimì avvolta come da un nimbo di luce, e la contempla, quasi estatico». A questa didascalia segue O soave fanciulla; l’amore scocca dunque con la benedizione della luna. Siamo dunque già molto lontani dalla luna che campeggia nelle Villi: «Raggio di luna è il pallor del suo viso», a ratificare ed esaltare la morte di Anna causata da un tradito amore. Nella Bohème, la luna ha tutt’altra caratterizzazione, fungendo da catalizzatrice per sentimenti di sconfinata profondità e viatico per un destino di tormentato ma imperituro amore. Non più soltanto riflesso dei movimenti emozionali dei protagonisti né tantomeno relegata a mero sfondo o spunto per metafore più o meno collaudate, fa così la sua grande apparizione la luce come agente drammatico. Nelle sue varie gradazioni ed aspetti questa è in Bohème non un semplice fondale contro il quale si staglia l’azione, bensì movente ineliminabile, quasi causa prima. L’irrompere della luce lunare non è consequenziale ad un particolare comportamento o sentimento dei protagonisti, ma permette un enorme salto di qualità, consentendo all’immediata simpatia ed al desiderio di fraternizzare di evolvere improvvisamente a vero amore. E’ una dimostrazione di come la luce possa assolvere i suoi compiti in piena autonomia senza necessariamente attaccarsi, come nelle Villi, Edgar e Manon, alle ‘sottane’ dei personaggi per proiettarne, visivamente ma pedissequamente, gli stati d’animo. Grande è pure la distanza dalla luna dell’atto secondo di Edgar: questa è infatti mera spettatrice degli eventi, con la sola funzione di far risaltare i corsi d’acqua e lo sfavillio delle armi all’arrivo dei soldati. Siamo parimente molto lontani dall’accoppiata sole/vita e notte/morte della Manon, che, nel tragico quarto atto registra la pudica assenza della luna.

Alla fine del quarto atto. Mimì è appena spirata e la didascalia recita: «Intanto Rodolfo si è avveduto che il sole della finestra della soffitta sta per battere sul volto di Mimì e cerca intorno come porvi riparo; Musetta se ne avvede e gli indica la sua mantiglia, sale su di una sedia e studia il modo di distenderla sulla finestra». L’amore nasce benedetto dalla luce lunare e, perlomeno nella sua terrena vitalità, viene stroncato alla presenza del sole, spettatore impotente di una tragedia esaltata dal suo bagliore in tutta la sua atrocità. Questa si manifesta con la massima crudezza, non potendo neanche il sole, fonte primaria di energia e dunque di esistenza sulla Terra, ridare vita ad una creatura stremata. Il significato del tentativo di Rodolfo e Musetta di riparare il volto di Mimì dai raggi solari ha dunque il sapore della resa definitiva, ratificata di lì a poco. Viene così riaffermata l’autonomia della luce da un parallelismo stantio con il momento scenico. L’impassibilità neoclassica del sole, il suo semplice apparire senza prendere una smaccata posizione nei confronti dei protagonisti, concorre ad edificare un finale d’opera memorabile. Le congenite capacità drammatiche della luce riaffermano l’originalità e la centralità di Bohème non solo nel processo creativo pucciniano, ma nel più ampio panorama operistico europeo.

Si deve dunque correggere l’affermazione di Carner che nelle opere del compositore lucchese anche l’illuminazione concorra a «creare un maximum di effetto drammatico». Già in Bohème, la luce sa assumere un ruolo protagonistico così da diventare essa stessa ‘dramma’ e non rimanere allo stato di mero effetto, magari regolabile secondo precise disposizioni sceniche. Si è dunque compreso la potenza drammatica di una soluzione che è molto distante, anche sul piano dell’originalità, dalla morte di Manon. Ricordiamo che questa, consapevole della fine imminente, cosi si rivolge a De Grieux: «Rammenti? dimmi… | la luminosa | mia giovinezza? Il sole più non vedrò…». Se anche Mimì non può ormai più vedere il sole, questi sembra però tentare un ultimo disperato gesto per animare una creatura che ha esalato l’ultimo respiro. Questo ossimoro visuale vita-luna/morte-sole ribalta innanzitutto, accrescendo la tragicità, il tradizionale abbinamento sole-vita. Che non risulta assolutamente essere procedimento verista,23 ma di un simbolismo che i libretti musicati da Puccini approfondiranno negli anni. Il precedente offerto dal secondo atto di Tristano potrebbe essere stato determinante per gli orizzonti drammatici di Illica. L’accoppiata tradizionale era comunque comparsa alla fine del terzo atto, quando Mimì e Rodolfo duettano: «Soli d’inverno è cosa da morire! | Soli! Mentre a primavera | c’è compagno il sol!», continuando con «al fiorir di primavera | c’è compagno il sol! | Chiaccheran le fontane | la brezza della sera». Dunque, il dramma della luce è pienamente in atto: il sole però sarà compagno sì, ma di morte e il «Vorrei che eterno | durasse il verno!» di Mimì, legato peraltro al momento della separazione fra i due amanti, sembra nascondere il presentimento che quel compagno sole non sia poi tanto amico. L’inverno non è più la stagione emanante paura e morte dell’atto secondo delle Villi, ma è l’alveo che permette all’amore fra Rodolfo e Mimì di intonare il suo lancinante canto del cigno.

Il problema che si pone a questo punto è tentare di individuare chi sia l’artefice della concezione drammatica della luce che si afferma con Bohème. Franca Cella afferma che dalle bozze manoscritte (conservate dagli eredi) la parte avuta da Giacosa, in questa collaborazione a 3, appare determinante; a Illica era affidata la stesura del canovaccio con scene e didascalie, a Giacosa, versificatore più smaliziato, la riduzione e levigatura di quell’abbozzo in versi (talora già previsti da Illica, con chiare scelte poetiche e lessicali), il compito di equilibrare, attraverso l’orchestrazione perfetta e misurata delle spinte drammatiche, attraverso il taglio psicologico frenato sempre un attimo prima che scada nello stucchevole, gli spunti al «colpo» sentimentale che precede quello drammatico, lasciato ormai al gesto che Puccini esige come interna consonanza al dramma.24

Proprio per la natura del suo compito, per altri versi fondamentale, Giacosa sembrerebbe il meno adatto ad affrontare problematiche di natura ‘luminosa’. In Come le foglie (1900), il suo lavoro in prosa più importante e conosciuto, solo nel quarto ed ultimo atto compaiono brevi, anche se efficaci accenni a stati di luce: E’ notte di luna […] GIOVANNI – Qui, qui ([…] conduce [Nennele] presso la grande finestra. Spalanca le persiane. Chiaro di luna nella stanza) […] (Tiene la sua testa abbracciata sul petto, poi la bacia in fronte. La lascia andare. Passeggia. Va alla finestra. Guarda fuori). Che bella notte! Vieni qui. Non hai freddo?25

La notte, la luna ed il fresco ben si correlano allo scampato proposito di suicidio da parte della giovane Nennele, e proprio questa atmosfera tersa facilita il respiro di sollievo per l’ansia sino qui accumulatasi. Non è possibile comunque concludere che la particolare situazione di luce nel finale della commedia giochi un ruolo protagonistico.

Anche per quanto riportato dalla Cella, si direbbe Illica il responsabile dell’articolazione e dell’organizzazione della materia narrativa, il genitore di scene fondate sulla drammatizzazione della luce, o, se vogliamo meglio puntualizzare, sulla luce drammatizzata. Libretti scritti interamente da Illica prima di Bohème, risultano, dal punto di vista della ricerca intrapresa, particolarmente interessanti. Più precisamente, in Wally (1892), musicata da Alfredo Catalani, non infrequenti sono gli accenni alla luce: eccettuati un «è la notte!» sul finire dell’atto primo ed un «cade la sera» all’inizio del terzo, è da notare comunque che questi non sono presenti nelle didascalie, bensì affidati al dialogo dei personaggi. Ad esempio, Walter canta nella canzone all’atto primo che «co’ raggi intanto l’avvolgeva il sole!… | ed ella ognor salia | la solitaria via»; Wally, da parte sua, afferma di «esser libera | come la luce … e il vento…» e che «no, vo’ partir col sole che tramonta»; nell’atto secondo Wally dichiara orgogliosamente che «finor non m’han baciata | che i rai del sole, il vento, | la rugiada imperlata, | le stelle in firmamento», mentre Gellner, nell’atto terzo, ricorda che «la notte è oscura […] | e una sventura può toccare a tutti […]». A differenza dell’impostazione del libretto di tradizione italiana, interamente incentrato sulle dinamiche passionali del personaggio, si nota dunque in Wally una tendenza a far vibrare sia i protagonisti sia l’atmosfera che li circonda all’unisono in virtù di una sostanza omogenea che unifica il tutto.

In Nozze istriane (1893), musicata da Antonio Smareglia, i riferimenti a momenti di luce sono praticamente concentrati nell’atto primo scena prima, e incorniciati da una didascalia che recita: «Sulla scena, dalle nubi portate via dal vento, libero erompe il sole e viene a piovere i suoi raggi di luce». A questa segue «Tutti (con un grido di gioia): To’! Ritorna il sole!». La quantità e la qualità di questi riferimenti non rende comunque Nozze istriane particolarmente funzionali alla presente ricerca, così come il Cristoforo Colombo (1892), messo in musica da Alberto Franchetti. Dall’atto secondo in poi la luce campeggia protagonista come mai prima in un libretto italiano. Qui Colombo «(si leva e additando il cielo sereno, scintillante di stelle)» e prosegue: «aman lassù le stelle – ed hanno amori strani, | le romite facelle | hanno palpiti umani», che conferma l’inclinazione di Illica ad accomunare in un medesimo nucleo vitale uomo e creato. Senza soffermarci in altre citazioni, riportiamo una lunga didascalia in chiusura di atto secondo: «intanto il cielo a poco a poco si è rischiarato. Ma non è più la tinta argentea lunare. La luce è bianca, è meno vibrata, ma è più sicura, più decisa. E’ la luce candida del giorno, luce che a poco a poco s’irrosa ad oriente e il mare tutto si tinge di un roseo che si fa di porpora, poi avvampa…».

Questa minuziosa disamina dell’irresistibile affermarsi della luce aurorale è qualcosa che non risulta avere dei precedenti, come assolulamente eccezionale è questa citazione dall’Epilogo: «(la luce del giorno comincia a rischiarare; tutti gli alti finestroni inondano scintille allegre di luce). GUEVARA – Lieto presagio!… Ve’ l’aurora | fa scintillar di gai riflessi l’alte | finestre arcuate e il funebre loco | par palpitare ei pure nella luce | che del Creato è vita! Sorge il sole! COLOMBO – (con estrema tristezza) Il sol per me non ha più raggi! […] Il gelo | che il cor m’agghiaccia è il gelo della tomba […] | per me non ha più canti e brezze il cielo […] | […] O sol, per me non hai luce e calore!». Notevole è ancora il ruolo che i dati luminosi naturali svolgono in Andrea Chénier, rappresentato neanche due mesi dopo Bohème (28 marzo 1986) su musica di Umberto Giordano. Ricordiamo rapidamente il famoso passo «un dì all’azzurro spazio | guardai profondo, | e ai prati colmi di viole, | pioveva l’oro il sole | e folgorava d’oro | il mondo; | parea la Terra un immane tesor, | e a lei serviva di scrigno il firmamento», ed il finale dell’opera:

MADDALENA – Infinito! Amore! (Un raggio di sole penetra nel secondo cortile scoperto così che la carretta, che entra con gran fracasso dal portone dischiuso della prigione, scortata dai gendarmi a cavallo, rimane avvolta da quella luce calda di primo mattino) CHENIER – (additandola a Maddalena) E’ la morte! MADDALENA – E’ la morte! CHENIER – Ella vien col sole! MADDALENA – Ella vien col mattino! CHENIER – Ah! viene come l’aurora! MADDALENA – Col sole che la indora! CHENIER – Ne viene a noi dal cielo, | entro ad un vel di rose e viole!

Oltre ad avere un ulteriore conferma dell’adozione ed dell’uso veramente eccezionale dello strumento ‘luce’ a scopo drammatico, possiamo osservare come l’inusuale binomio sole-morte osservato nella morte di Mimì, sia riproposto in un libretto immediatamente posteriore, quasi a fissarsi in ‘topos’. Questo, mutatis mutandis, si perpetua in Iris (1898), musicato da Pietro Mascagni. In chiusura d’opera, si legge che «l’aria si riempie di fulgori! E l’aria passa tra rami e fronde!, tra fiori ed erbe!, tra piante e case!, e palpita! O Luce, anima del Mondo! Iris non sente più le sue torture; – già vive, la fanciulla, di una vita tutta luce». Il Sole diventa addirittura protagonista di un’esaltatata perorazione eliocentrica («Son Io! – Son Io, la Vita! – Son la beltà infinita, | la Luce ed il Calor. | Amate, o Cose! – dico – Sono il Dio novo e antico; – | amate! – Son l’Amor […]») e «l’anima della mousmè è fiore, luce, armonia!».

Il movimento che ha fatto della luce un principio stilistico rivoluzionario non è un movimento letterario bensì quello pittorico degli impressionisti. «Nella loro pittura la luce e la materia, la luce e i corpi non sono elementi distinti: sono costruiti da un’unica sostanza luminosa che perpetuamente infrangendo se stessa e variamente aggregandosi crea le immagini degli oggetti e ci rende certi, nel medesimo tempo, della loro inesistenza come fatti fisici a sé stanti».26 Questo passo potrebbe definire l’impegno di Illica nel tentare di compenetrare corpi e luce, quasi che i primi non fossero enti materici opposti all’impalpabile atmosfera, ma aggregazione particolare di atomi fondamento dell’esistente. Coglie dunque perfettamente nel segno Franca Cella quando, riferendosi alle caratteristiche del composto illichiano, parla di «particolare dimensione di realismo, direi quasi influenzata dalla pittura prima che dalla poesia».27 Non bisogna comunque dimenticarsi che la luce aveva avuto un ruolo straordinario in quella letteratura che, da Baudelaire a Mallarmé, suole definirsi ‘simbolista’. Il disprezzo del dato grezzamente naturalistico ed il ripudio affermato così decisamente forse per la prima volta del principio di imitazione della natura a favore di quello che Rimbaud definisce «deragliamento di tutti i sensi», portano alla ribalta il vuoto, l’impalpabile, l’atmosferico liberamente associato al pieno, al definito, al corporeo. Pur presupponendo l’oscuro ed il misterioso dello Sturm und Drang, questa poetica va ben oltre proprio per il disinteresse di fornire contorni precisi e verisimiglianza corporea a quanto non corrisponda alla prosaica esperienza quotidiana. Con il suo lattescente e invaso dalla luce degli astri Poema del Mare, con i cieli che scoppiano in lampi, con il sole basso fosco di orrori mistici, con la notte verde ed i soli d’argento, con le lune atroci e il sole amaro Il battello ebbro di Rimbaud è in questo senso estremamente indicativo. E’ così confermato che le manifestazioni artistiche che si appropriano del fenomeno luminoso come cifra peculiare e cardine estetico hanno nella cultura francese un loro fermo punto di riferimento.

La librettistica francese della seconda metà dell’Ottocento è un precedente che può avere ulteriormente influenzato l’inclinazione di Illica a rappresentare la luce naturale come forza agente all’interno del dramma. Non sempre è possibile rilevare una presenza significativa di dati luminosi: nell’atto prima della Mignon di Michel Carrè e Jules Barbier scritta per Ambroise Thomas (1866) vi sono fugaci accenni sia alla notte come teatro per la scorribanda dell’«uom che ha fosca armatura» e che «vien | sul suo nero corsier» (scena terza) sia al «bel suol che di porpora ha il ciel | Il bel suol ove de’ rai son più tersi i colori, | ove l’aura è più dolce, più lieve l’augel, ove in ogni stagion ha l’ape sempre fiori | Ove sotto il fulgor d’un cielo ognor sereno | par che l’april s’eterni all’erbetta in sen […]».28 Eccettuato un accenno in didascalia all’inizio dell’atto terzo, («solitudine completa e notte oscura») qualsiasi riferimento a situazioni di luce è praticamente assente nella Carmen di Henry Meilhac e Ludovic Halévy affidata alle note di Georges Bizet (1875), così come nella Manon di Meilhac e Philippe Gille musicata da Massenet (1884), eccettuato un laconico «è il tramonto» nell’atto quarto quadro secondo scena prima. Una presenza assai più rilevante rispetto al coevo libretto sia francese sia italiano è comunque ravvisabile in altri testi. L’inizio dell’atto secondo di Romeo e Giulietta di Barbier e Carré musicato da Charles Gounod (1867) presenta un Romeo che sembra colloquiare con le sorgenti di luce. «Notte! Nelle tue ali scure | accoglimi!… l’amore! L’amore! | Sì, il suo fuoco violento mi prende! | (la finestra di Giulietta s’illumina) Ma quale improvviso chiarore | in questa finestra risplende? | Giulietta di là | come il sole sorgerà. | Ah! Sole, alzati! | e dirada le stelle | che, luminose e belle, | brillano senza velo. | Alzati sole sole! A me vieni, | illumina il cielo!».29 Nell’atto secondo scena quinta Romeo si rivolge poi a Giulietta con un «ah! ascolta tu chi t’adora: | la luce sei tu! | Sei l’aurora, sì, l’aurora | della vita mia sei tu! | Di me disponi, | la vita ti è donata: | versa sull’anima assetata, | su la mia anima assetata, | tutta la luce di lassù!». Il secondo atto del Sansone e Dalila di Ferdinand Lemaire scritto per Camille Saint-Saens (1877), inizia con questa didascalia: «All’alzarsi del sipario la notte incomincia e si fa più completa per tutta la durata dell’atto».30 Questo progressivo affievolirsi della luce è ricordato alla fine della scena seconda: «La notte divien sempre più scura». Ma non è solo nelle didascalie che la luce presenzia: nell’atto terzo quadro secondo scena prima vediamo che «si fa giorno», ed i Filistei notano che «già sparge l’aurora i bei raggi d’or, | e la face muor al roseo baglior; | bello è il gioir, se brilla l’aurora, | amiam ancora: | cerchiam l’oblio pei nostri cor, | al breve aleggiar di un venticel, | perdendosi van l’ombre su nel ciel, | porporin diviene sulle montagne | il bruno vel, | e dardeggia il sole sulle campagne!».

Certamente siamo molto distanti da un dramma quale il Pelleas et Melisande adattato per la scena operistica da Maurice Maeterlinck per Claude Debussy (1902). Qui la luce diventa strumento irrinunciabile per supportare con sistematicità quell’alone di mistero che presiede allo svolgimento dell’azione. Un esempio: «PELLEAS – Dimmi: perché guardi tanto gravemente? Noi siamo entrati nell’ombra. L’ombra dell’albero è buia. Qui…vieni alla luce. Noi non possiamo vedere la nostra felicità. Vieni… vieni…. Ci rimane sì poco tempo… MELISANDE – No, no, restiamo qui… Io sono più presso a te nell’oscurità…».31 Proprio questa sorta di autogenerazione dei personaggi dal mistero e di vita manifestantesi per mal decifrabili presenze luminose, illustra la distanza che intercorre fra un’espressione diretta del movimento simbolista nato e sviluppatosi in Francia, e quella di Illica, filtrata attraverso l’esperienza scapigliata italiana. Che paradossalmente riuscì a temperare la carica rivoluzionaria, profetica e prolifica del simbolismo con la componente naturalistica di segno assolutamente contrario. La personificazione del Sole in Iris è esempio sintomatico della tendenza di Illica a rendere materico anche ciò che per sua natura si manifesta come impalpabile. I libretti francesi segnalati si presentano assai distanti anche dalle dalle originalissime soluzioni luminose di Bohème, che non si limitano a denotare un particolare momento della giornata ma si associano a momenti topici contribuendo alla formazione di un complesso che va ben oltre la semplice somma degli elementi costituenti la situazione scenica.

Una lettera di Puccini del 21 luglio 1894 a Giulio Ricordi indica però la possibilità di battere un’altra via, che, pur presentando maggiori insidie o comunque un percorso meno agibile del precedente, deve comunque essere percorsa:

Gentilissimo Sig. Giulio, martedì mattina alle 10 sarò nel suo studio. L’irritazione di Illica mi sorprende e la trovo strana. Quando venne qui si restò perfettamente d’accordo – e sapeva della Lupa – e deplorava non facessi la Bohème e che sarebbe sempre stato pronto a secondarmi in tutto. Ora che ritorno a lui, si diverte a darsi delle arie, e se poi dice che l’ho messo da parte la colpa di chi è ? Bastava che il lavoro fosse quale deve essere, e cioè logico, stringato, interessante ed equilibrato. Ma niente, per ora, di tutto questo. Io devo ad occhi chiusi accettare il vangelo d’Illica? Clisteri non mi se ne piantano, sono abbastanza provato per ricaderci. Ora Bohème la vedo, ma col ‘Quartiere Latino’ come dissi l’ultima volta che conferii con Illica, colla scena di Musette che trovai io: e la morte la voglio come l’ho ideata io, e son sicuro allora di fare un lavoro originale e vitale. In quanto alla ‘Barriera’ son sempre del mio parere, che mi piace poco. Trovo un atto dove di musicale c’è poco: solo la commedia corre, ma non è assai. Avrei desiderato qualche elemento melodrammatico di più, non bisogna dimenticare che della commedia ne abbiamo tanta negli altri atti. In quello lì, desideravo un canovaccio che mi facesse spaziare un po’ più liricamente… Basta, il sig. Illica si calmi e si lavorerà; ma voglio anch’io dir la mia, all’occorrenza, e non farmi salir sulle spalle da nessuno. Intanto la saluto carissimamente e a rivederci a martedì.32

«Clisteri non mi se ne piantano… Ora Bohème la vedo…». Con un tono straordinariamente deciso Puccini, non intende, come evidentemente aveva fatto per le tre opere precedenti a Bohème, più accettare acriticamente quanto propostogli dai librettisti, essendo maturata in lui la convinzione di affidarsi ciecamente al proprio istinto teatrale. Questo, almeno in linea generale; ma è veramente pensabile che il musicista abbia inteso occuparsi anche di problemi particolari quali quelli inerenti alla luce? «E la morte la voglio come l’ho ideata io»: se Puccini si arroga la paternità del finale, pur in assenza di documenti che lo provino, non è assurdo pensare che possa anche aver suggerito le indicazioni circa il particolare atteggiarsi della luce solare, che contribuiscono enormemente all’originalità e all’efficacia della scena. L’ingerenza di Puccini evidentemente non doveva limitarsi ad intervenire sul congegno narrativo curato da Illica, se Giacosa si lamenta quasi rassegnato: «Porterò con me ad Ivrea il 3° atto [di Bohème] che riporterò compiuto secondo gli accordi. Compiuto a modo mio, se pure il Puccini non lo farà rifare una ventesima volta».33 Ma il «tormento Puccini»34, colpisce nuovamente, producendo questo amaro e famoso sfogo di Giacosa con Ricordi:

Vi confesso che di questo continuo rifare, ritoccare, aggiungere, correggere, tagliare, riappiccicare, gonfiare a destra per smagrire a sinistra, sono stanco morto. Se non fosse stato per la grande amicizia che ho per voi e per il bene che voglio al Puccini, a quest’ora me ne sarei liberato in mal modo. Quel benedetto libretto, ve l’ho già fatto tutto, da capo a piedi, tre volte e certi pezzi quattro e cinque. Come ho da fare io a procedere di questo passo?35

D’altra parte proprio Giacosa sembra avere riconosciuto come il tormentato e tormentoso Puccini avesse idee chiarissime: «Puccini has surpassed all my expectations, and I now understand the reason for his tyranny over verses and accents».36 Ma se, in assenza di documentazione decisiva e notando l’operato di Illica anche prima di Bohème, qualcuno ritenesse improbabile che Puccini possa in qualche modo aver contribuito alle risoluzioni luminose della Bohème, il solo avallare scelte altrui da parte di un compositore diventato così ossessivamente esigente per le scelte librettistiche ha il sapore della collaborazione tipica del lavoro di equipe. Se Puccini avesse cioè avuto qualche dubbio sulla riuscita scenica dei fattori luminosi e non ne avesse compreso a fondo l’importanza, avrebbe senz’altro imposto la loro eliminazione.

Si deve così chiosare l’affermazione di Carner che «per Puccini, come in realtà per ogni vero compositore di teatro, lavorare sul libretto era un atto creativo quanto metterlo in musica».37 Puccini non lavorerà più ‘sul’ libretto, ma ‘al’ libretto. Sottilizzare sulle preposizioni non è esercizio pedante, quando sia in gioco un processo compositivo che inizia non con la prima nota stesa sul pentagramma, bensì con la scelta del soggetto. Quando Carner scrive che Puccini «concepiva un’opera soprattutto come un dramma parlato al quale la musica doveva prestare una terza dimensione»,38 sembra per un momento, ma purtroppo un momento troppo importante, dimenticarsi che il compositore non musica un libretto già preconfezionato dai librettisti, ma ha contribuisce in modo assolutamente decisivo alle due dimensioni restanti, identificate nell’articolazione della narrazione e nella versificazione.

In Tosca viene confermato il potere fascinatorio di una notte di luna: «E’ luna piena | e il notturno effluvio floreal | inebria il cor. Non sei contento?». Tosca continua con una lunga digressione che si chiude con una straordinaria perorazione:

Al tuo fianco sentire | per le silenziose | stellate ombre, salire | le voci delle cose! | Dai boschi, e dai roveti, | dall’arse erbe, dall’imo | dei franti sepolcreti | odorosi di timo, | la notte e con bisbigli | di minuscoli amori | e perfidi consigli | che ammolliscono i cuori. | Fiorite, o campi immensi; palpitate, | auree marine, nel lunare albor; | ah, piovete voluttà, volte stellate! | Arde a Tosca nel sangue il folle amor!

La luna sembra acquisire lo stesso potere vivificante sulla natura che nella realtà terrena compete al sole: si vuole addirittura che i campi fioriscano per l’azione diretta dei raggi lunari. Dal momento che ha offerto «il canto | agli astri, al ciel, che ne ridean più belli», Tosca sembra chiedere un processo contrario che restituisca in momento opportuno quanto dedicato disinteressatamente in precedenza. Questa opera procede dunque sulla linea di Bohème, avendo la luce non solo la funzione di creare atmosfera, ma anche la capacità di influenzare il corso degli eventi naturali e dei comportamenti umani. Vi si scopre comunque un inclinazione panteistica e un erotismo spinto non rintracciabili nell’opera precedente. Che la notte di luna connoti positività lo conferma Scarpia all’inizio dell’atto secondo: «Io di sospiri | e di lattiginose albe lunari | poco m’appago». Sganciata assolutamente da una qualche connessione con il sentimento dell’amore, la sua sfrenata sessualità prende così le distanze dalla passionalità espressa da Tosca nel monologo citato. L’aderire o meno alla poesia di una notte di luna funge dunque da cartina al tornasole per fissare il carattere di un personaggio e le sue motivazioni interiori. Ancora una volta, non è lo stato d’animo dei protagonisti a riflettersi sul mondo circostante, ma è l’atmosfera, di cui la luce è elemento fondamentale, a chiarire l’essenza del personaggio. Mosco Carner ha compreso a fondo questo problema, quando afferma che per Puccini l’atmosfera era parte integrante del mondo drammatico come la trama – l’aria stessa che respiravano i suoi personaggi […].Oltre a quella di documentazione realistica e di evocazione poetica, dobbiamo riconoscere all’atmosfera, in Puccini, una terza funzione: quella di costituire il centro di irradiazione del dramma, tale da influire sulla vita musicale dei personaggi e determinare il carattere particolare di ogni singola opera […]. Tuttavia, un compositore che dà all’atmosfera un posto tanto importante nella propria concezione drammatica corre il rischio di vedere i suoi personaggi come emanazioni dell’atmosfera stessa. Spesso infatti è difficile distinguere in Puccini la delineazione di un personaggio dall’atmosfera, perché le due cose tendono a confondersi. E questa natura ibrida della sua arte di ritrattista musicale costituisce una delle fondamentali differenze con Verdi, per il quale prima veniva il personaggio e poi l’atmosfera. I personaggi musicali di Puccini non tanto sono personalità dotate di vita propria, quanto proiezioni di un’atmosfera, incarnazione di stati emotivi e, in ultima analisi, simboli delle spinte e delle tensioni inconsce dell’autore. Essi parlano più per il loro creatore che per loro stessi. Se ci colpiscono per la loro personalità, è soprattutto in virtù della peculiare atmosfera drammatica nella quale si muovono.39

Torniamo a Tosca ed al suo terzo atto: è «notte. Cielo sereno, scintillante di stelle». Di lì a poco abbiamo «luce incerta e grigia che precede l’alba». Cavaradossi conferma che era la notte, quando «lucean le stelle … e olezzava | la terra», il momento deputato all’incantamento amoroso e alla passione. In questi due versi parafrasa quanto esternato da Tosca in Al tuo fianco sentire, con la differenza che il desiderio di Tosca era proiettato nel futuro, mentre Cavaradossi rievoca un passato che riconosce come definitivamente perduto. Anche questo comune intendere la poesia della notte rafforza l’indissolubilità del legame fra Tosca e Cavaradossi, che non potrà mancare di far seguire, alla morte dell’uno, quella dell’altro. «Il cielo si fa più luminoso; è l’alba: suonano le 4». Poco dopo Tosca ci informa che «già sorge il sole». Da questo momento, non abbiamo altra notazione di carattere meridiano: Cavaradossi è stato fucilato, e alla luce del sole nascente. Il rapporto notte/amore e sole/morte di Bohème viene così riproposto nell’opera che la segue a quattro anni di distanza. Carner torna sul fondamentale problema da lui posto, affermando che Tosca è tipicamente un «dramma musicato» (non un dramma musicale). Si sarebbe quasi tentati di mettere l’accento sul nome più che sull’aggettivo, se in ultima analisi il lavoro non vivesse proprio attraverso la sua musica; tanto è vero che il dramma di Sardou è ormai relegato nel limbo, mentre l’opera di Puccini proclama la sua vitalità un anno dopo l’altro attraverso innumerevoli esecuzioni.40

Dal momento che lo stesso Sardou «non esagerava troppo quando dichiarava il libretto superiore al dramma»,41 pure ammettendo a malincuore un Puccini ‘uomo di teatro’ incapace di evolversi a ‘drammaturgo musicale’, almeno nel suo ambito creativo gli viene riconosciuta un’assoluta grandezza ed un istinto straordinario.

Sino ad ora non abbiamo potuto citare documenti pucciniani che attestassero con certezza la paternità delle indicazioni concernenti l’atteggiarsi della luce. Ma a partire dal 1900, anno in cui viene rappresentata Tosca, vi sono lettere che certificano la possibilità che Puccini possa aver partecipato attivamente anche alla definizione dei particolari connessi alla luce naturale. In una missiva a Illica del 9 giugno 1900, fra i consigli per un Tartarin di Tarascon da Alphonse Daudet poi mai musicato, Puccini scrive: «L’ultimo quadro, poi, il trionfo di Tartarin lo vedo bene. Gran piazza fiorita d’alberi, oleandri a diversi colori, terreno bianco uso Palermo – Malta, cielo di cobalto scuro, sole sole sole, gran ponte sul Rodano al fondo, praticabile».42 Al di là dell’avida richiesta di sole, è impressionante l’analitica precisione dei riferimenti. Questo conforta e conferma che anche Puccini possa avere contribuito al particolare ed originalissimo ruolo che la luce gioca in Bohème. Si potrebbe però anche concludere che, ormai allenato a pensare in termini luminosi grazie al magistero di Illica, Puccini sia a questo punto in grado di concepire autonomamente il lavoro librettistico prevedendo lui stesso il particolare atteggiarsi della luce. Questa inclinazione al dettaglio coloristico particolareggiato egli la dimostra anche nella vita extra – artistica. In una lettera del 16 maggio 1899 all’ingegner Giuseppe Puccinelli, progettista e costruttore che si occupò delle ville di Torre del Lago e Chiatri, Puccini scrive: «Dunque la prego di nuovo di fare una scappata a Torre per i vespai e raccomando che il pavimento alla veneziana sia bello e di pietra fitta e a disegno non barocco ma di gusto e l’insieme più sullo scuro piuttosto che sul chiaro molto bleu rosso cupo e nero».43 La sensibilità di Puccini nei confronti di luce e colore si sarà senz’altro affinata in virtù della frequentazione, a Torre del Lago, di pittori post-macchiaioli allievi di Giovanni Fattori, quali Ferruccio Pagni, Plinio Nomellini, Angiolo Tommasi, Francesco Fanelli e Raffaello Gambogi. Che Puccini intendesse fare delle pareti della casa di Torre del Lago una sorta di finestra sulla natura di quei luoghi, per goderne sino in fondo tutto l’incanto coloristico e luminoso, lo ricordano gli affreschi di Pagni e Nomellini, poi purtroppo coperti da stoffa per il degrado cagionato dall’umidità.44

La novità di Butterfly è che, da elemento esterno seppur agente, la luna si correla con la protagonista sul piano delle affinità: «somiglio | la Dea della luna, | la piccola Dea della luna che scende | la notte dal ponte del ciel». La Dea della luna non funge in questo caso da mero spunto coloristico, ma possiede un potere paticolare che il duetto fra Pinkerton e Butterly chiarisce: «e affascina i cuori… | e li prende, | e li avvolge in un bianco mantel. | E via se li reca negli altri reami». Non si rinuncia dunque a riaffermare le seleniche capacità direttive nei confronti delle umane azioni, emerse per la prima volta nella Bohème e presenti anche in Tosca. Il primo atto si chiude con l’apoteosi di una notte stellata che approfondisce l’antropomorfismo dell’universo, con gli astri assimilati ad occhi «fisi, attenti», che in ultimo si allargano ad un sorriso estatico : «è notte serena! | Guarda: dorme ogni cosa! | Ah! Dolce notte! Quante stelle! | Non le vidi mai sì belle! | Trema, brilla ogni favilla | col baglior d’una pupilla. | Oh! quanti occhi fisi, attenti | d’ogni parte a riguardare! | pei firmamenti, | via pei lidi, via pel mare, | quanti sguardi! | Tutto estatico d’amor | ride il ciel!». Si ravvisa in questa chiusura una stretta parentela con «ah, piovete voluttà, volte stellate!» di Tosca. L’analogia con questo passo di Al tuo fianco sentire riguarda l’intensa partecipazione all’amore terreno di un universo che sembra tifare alla stregua di un pubblico plaudente le gesta dei suoi beniamini. L’atmosfera si riversa nuovamente sui personaggi, meta delle attenzioni dell’universo. Nella loro icasticità, quegli ‘occhi fisi, attenti’ conservano una loro indipendenza dall’interpretazione data dalla protagonista, inclinando alla preoccupazione ed al timore per un destino che sta già incamminandosi verso il tragico.

Nonostante sia preceduta da scene di esultanza per l’arrivo nel porto della nave di Pinkerton, la notte che chiude l’atto secondo ha tuttavia una significanza del tutto diversa dalla precedente. Infatti «Butterfly si pone innanzi al foro più alto e spiando da esso rimane immobile, rigida come una statua». Subito dopo leggiamo che «è notte; i raggi lunari illuminano dall’esterno lo shosi. il bimbo si addormenta, rovesciandosi all’indietro, disteso sul cuscino e Suzuki si addormenta pure, rimanendo accosciata: solo Butterfly rimane sempre ritta ed immobile». Questo continuo sottolineare l’immobilità e la rigidezza di Butterfly rimanda ai momenti in cui essa si confronta con la morte, quella del padre e la sua: prima solo ipotizzata, poi perseguita di proposito. Il coro muto che distilla le ore notturne per consegnarle all’alba non è dunque un ‘ninna nanna’ o una melodia bamboleggiante, bensì una vera e propria trenodia.45 Lo stupefacente è che la tragedia si consuma però con la luce del sole: Butterfly comprende l’ostilità di tale luce e così prorompe: «troppa luce è di fuor, | e troppa primavera, | chiudi». Per la prima volta in un’opera di Puccini l’avversione alla luce del sole è spiegabile non solo con il ricorso a pur pertinenti motivazioni psicologiche, bensì a considerazioni di una razionalità volta al tragico. Con la loro vitale esuberanza, la troppa luce e la troppa primavera suonano irridenti per chi vive un dramma interiore che sta per concludersi in un suicidio. Il messaggio sembra essere che una valle di lacrime sarebbe molto più sopportabile, in assenza di elementi come la luce del sole in un giorno di primavera, facilmente correlabili a manifestazioni di vitalità assolutamente incomprensibili da chi ha la morte nel cuore. Viene così retrospettivamente esplicitata la funzione del raggio di sole che sta per colpire il volto di Mimì morta e la motivazione per cui Musetta cerca pudicamente di ripararla: si vuole cioè evitare l’intervento di un elemento che non solo accrescerebbe a dismisura la già alta temperatura emotiva in forza dello stridente contrasto sole/morte, ma che nel suo essere totalmente estraneo assumerebbe un carattere di scherno intollerabile. Proprio questa sorta di estraneità ribadisce l’autonomia della luce, che aspira non tanto a porsi in rapporto di somiglianza con i protagonisti, quanto a concorrere con essi ad un’unitarietà di più alto livello. Un’unitarietà che consenta la creazione di una struttura dove ogni elemento gioca un ruolo individuo, ma perfettamente calibrato al raggiungimento di un miracoloso equilibrio.

A questo punto dovrebbe essere chiaro perchè i dati luminosi vengano inseriti nel libretto sia sotto forma di didascalia sia per l’enunciazione diretta di qualche personaggio, e non relegata nelle più tecniche ‘disposizioni sceniche’. La risposta che si ritiene più aderente e rispettosa a quanto verificato con sistematicità nei libretti sin qui musicati da Puccini, è che la luce si è fatta trama. Questa non è più e soltanto un effetto da demandare alla sensibilità del direttore di scena e alle capacità realizzative delle maestranze, ma, percorrendo il canale privilegiato dell’indicazione librettistica, rivendica l’assoluta organicità ad un tutto scenico che acquista il carattere della struttura. Ciò significa che una non piena comprensione del ‘problema luce’ od un’attenzione superficiale a quanto espresso dettagliatamente nei libretti ha senz’altro ripercussioni nefaste sulla totalità dell’opera. La creatività dei registi e dell’intero cast non dovrebbe dunque offendersi per l’invito ad un irrinunciabile, preventiva, accurata lettura di testi che affrontati con umiltà risultano più smaliziati di quanto si possa ritenere ad una prima disinvolta occhiata.

Si è già visto come il simbolismo e l’impressionismo abbiano decretato l’ingresso trionfale della luce come fondamentale strumento per l’operazione artistica. Spogliata del suo carattere rivoluzionario, questa diviene componente non solo ineliminabile, ma assolutamente vitale per il meccanismo librettistico e per il suo formidabile interagire con il destino dei personaggi di Bohème, Tosca e Butterfly. Solamente seguendo lo svolgimento artistico complessivo della seconda metà dell’Ottocento è possibile comprendere come la luce naturale, quasi del tutto assente sino al 1890 circa, assuma all’interno dell’ingranaggio librettistico un compito di grande responsabilità. E se si è riferito di simbolismo e di impressionismo, non si deve dimenticare l’aspirazione wagneriana alla «grande opera d’arte totale [che] dovrà sintetizzare in sé tutti i generi d’arte, per sfruttare ciascuno di essi come semplice mezzo e annientarlo in vista del risultato globale di tutti i generi fusi insieme».46 Evidentemente anche la tendenza antiformalistica del secondo Ottocento, relativizzando tutte le componenti in vista di un risultato globale, consente perfino ad aspetti sino allora trascurati di giocare un ruolo importante come mai prima. Così la luce, nell’incontro con il talento drammaturgico ancor prima che musicale di Giacomo Puccini, entra a pieno diritto nella storia dell’opera ‘internazionale’ senza peraltro sbandierare la sua presenza, ma agendo in punta di piedi e muovendosi con una naturalezza che può offuscare la sua azione modesta ma indefessa.

Il contrasto fra luce e tenebre è stato ratificato dalla Bibbia, dove esso compare con una sistematicità da influire decisamente su quanto doveva seguirle. Si pensi solo all’inizio della Genesi:

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e vuota, v’erano tenebre sulla superficie dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: «Vi sia luce!». E vi fu luce. Dio vide che la luce era un bene. E Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò la luce «giorno» e chiamò le tenebre «notte». […] Dio fece i due luminari maggiori, il luminare grande, per dominare il giorno, e il luminare piccolo, per dominare la notte, e le stelle. E Dio li pose nel firmamento del cielo per far luce sulla terra e per dominare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era un bene.

Isaia (9,1-2) narra poi che

Il popolo che camminava nelle tenebre

vide una grande luce;

su coloro che abitavano in una terra di ombra di morte

risplendette una luce.

Questo vaticinio di Isaia sarà ripreso dal vangelo di Matteo (4,16) a dimostrazione che Gesù realizza compiutamente il disegno salvifico di Dio per un umanità che prima della sua venuta è costretta nelle tenebre del peccato. Che luce e tenebre siano rispettivamente simboli di salvezza e di morte lo conferma l’Apocalisse (21,24), con precisi riferimenti a Isaia (60,3 e 11): «le genti cammineranno alla sua luce, e i re della terra vi porteranno la loro gloria. E le sue porte non si chiuderanno mai di giorno, né vi sarà più notte». La progressiva diffusione della parola di Dio nei secoli, nel nome della quale è stato esercitato anche tanto potere temporale, è sufficiente a far comprendere come l’antinomia luce-tenebre sia assunta a classico topos.

Non è invece agevole rintracciare dei precedenti culturali che, ribaltando la positività da sempre e comunemente connotata dalla luce, generalmente del sole, ne facciano, se non simbolo di tragicità, almeno strumento per imporla ed evidenziarla. Unico importante riferimento d’obbligo è Giacomo Leopardi, il poeta del pessimismo prima storico e poi cosmico.  «A me non ride | L’aprico margo, e dall’eterea porta». Il mattutino albor» di una Saffo impegnata nel suo maestoso Ultimo canto, pienamente consapevole che «già non arride | Spettacol molle ai disperati affetti», sembra un qualcosa non molto distante dall’amara conclusione di Butterfly. «Ma perché dare al sole, | Perché reggere in vita | Chi poi di quella consolar convenga?», terribile domanda rivolta alla «vergine luna» dal pastore errante dell’Asia, conferma che l’astro datore di vita può essere chiamato in causa ad esaltare il dramma interiore di colui per il quale la vita è un nonsenso troppo difficile da giustificare ed accettare. Si deve inoltre registrare la domanda posta dal Gallo Silvestre nel suo drammatico Cantico:

Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano o scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifivhi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno ne’ requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?

I libretti delle opere pucciniane sembrano dunque ereditare da Leopardi l’immagine e la funzione di un sole spettatore della congenita infelicità umana, e non solo umana, e di un mondo dove «le creature animate […] non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte».47 Ma se il sole delle opere leopardiane (come del resto la luna) risulta impassibile testimone di vicende umane a lui del tutto estranee, quello dei libretti pucciniani è chiamato ad esaltare e ad intensificare la concitazione interna del personaggio e quella a lui esterna nel momento in cui sta portando a termine il suo dramma. E mentre Leopardi accomuna tutti gli esseri viventi in un assurdo tragico destino, Butterfly ammette invece che si possa essere felici. Rivolgendosi a Kate, prorompe con un solenne «sotto il gran ponte del cielo non v’è | donna di voi più felice. | Siatelo, sempre, | non v’attristate per me». Constatando la diversità dei destini personali, e non escludendo che la felicità possa essere raggiunta da qualche eletto, si riesce, anche in forza di questo stridente contrasto, a raggiungere momenti al calor bianco.

Alla ricerca di ulteriori conferme del ruolo direttivo di Puccini nell’indicare ai librettisti il particolare atteggiarsi della luce, si incontra una lettera dell’1 ottobre 1901 ad Illica: «Pensami dunque al secondo [atto di Butterfly]: l’incontro delle donne e all’ultimo che coll’intermezzo cupo – lento e suggestivo del drago, attacco (dello stesso colore) senza vivacità ne’ allegria sino alla fine. Mi piace che sia di notte con quella luce rossastra che verrà sul bambino […]».48 La distribuzione della narrazione nei vari momenti della giornata e l’illuminazione si direbbero senz’altro farina del sacco pucciniano.

Due lettere a Toscanini informano inoltre che il compositore continuava ad interessarsi dei problemi connessi alle luci anche per la messa in scena dell’opera. Nella prima, del 12 ottobre 1905, si legge: «Guarda di ottenere l’effetto delle lampade che si spengono come per mancanza d’olio al sorgere della prima alba, al terzo atto […]».49 Nella seconda, sempre dell’ottobre 1905, così Puccini si rivolge al direttore d’orchestra: «Caro Toscanini, due parole riguardo alla ‘mise en scene’ [di Butterfly]. L’ultima scena, quando Suzuki chiude la scena, dovrà divenire completamente buia, con pochissima ribalta, e quando il bambino esce dalla porta d’uscita ne verrà fuori un violento raggio di sole, forte, e fascio di luce larga, nella cui orbita avrà luogo la scena finale».50 Queste parole indicano ormai in modo lampante l’importanza fondamentale che per Puccini rivestono la luce e l’illuminazione per la caratterizzazione dell’azione drammatica, sia in generale sia nei più piccoli dettagli.

Prima di decidersi per La fanciulla del West, Puccini si occupò di progetti che non ebbero poi seguito. Due lettere ad Illica ribadiscono come sia il compositore stesso a suggerire il momento della giornata ed i particolari dell’illuminazione. Riguardo il libretto di una mai musicata Notre Dame, Puccini scrive: «Caro Illica, a lunedì, ma vieni carico di idee e preparato a grandi discussioni. Per il Prologo ho idee quasi fisse e definitive. Al tempio gotico di notte o sera, dietro veli, folla prona, indistinta quasi, lampade a colori qua e là, quasi una visione fantastica».51 Sempre ad Illica, circa The florentine tragedy di Oscar Wilde, Puccini consiglia che «la mano (della sposa) che tiene la face illuminante la scena, trema, e il lume cade a terra rimanendo un bel chiarore lunare ad illuminare la tragica fine».52

Il libretto de La fanciulla del West, scritto per Puccini da Guelfo Civinini e Carlo Zangarini nei primi due atti si svolge in interni: il primo nel locale chiamato ‘Polka’ ed il secondo nell’abitazione di Minnie. L’intervento protagonistico dei momenti caratterizzanti il giorno solare è dunque fortemente limitato. Nella lunga didascalia iniziale leggiamo comunque che «attraverso le finestre si scorge la valle, con la sua vegetazione selvaggia di conifere basse, tutta avvolta nel fiammeggiare del tramonto. Lontano, le montagne nevose si sfumano in toni d’oro e di viola. La sua luce violenta dall’esterno, che va calando rapidamente, rende anche più oscuro l’interno della ‘Polka’. Era dall’Edgar che la scomparsa del sole sotto l’orizzonte non presenziava in un libretto musicato da Puccini. Ma se nella sua seconda opera «il cielo fiammeggiante solcato da nere strisce di nubi», oltre che sfondo pacchiano, è una scoperta proiezione di tragedie improcrastinabili, dalla Fanciulla del West in poi il tramonto avrà una funzione attiva nei confronti dell’azione. Con il suo progressivo movimento dalla luce all’oscurità, l’evoluzione del sole si correla a quella della trama, la cui direzione sembra essere momentaneamente adombrata per rendere più interessanti gli sviluppi scenici che seguiranno. E’ da dire che questi non andranno nel senso che la tradizione figurale assegna al tramonto, quale malinconico declino verso epiloghi pervasi di struggente nostalgia. Questo perché il tramonto procede verso la sera e la notte, momenti deputati, anche nelle opere che seguiranno La fanciulla, all’incanto amoroso. Che per Puccini è punto di arrivo anche nel quotidiano: «io sono innamorato sempre, innamorato come a vent’anni! Il giorno in cui non lo sarò più, fatemi il funerale».53

La luna è immediatamente ricordata da Wowkle, nella sua ninna nanna all’inizio del secondo atto: «il mio bimbo è grande e piccino, | è piccino e sta dentro la cuna, | è grande e tocca la luna, | tocca la luna col suo ditino. | Hao, wari! Hao, wari!…». Sono versi di non immediata decifrabilità, che comunque mettono in relazione la ‘grandezza’ del bimbo con la sua capacità di toccare la luna. Che è dunque elemento cosmico in cui si proietta uno stato d’animo oscillante fra contemplazione e stupore per un universo che la mamma vede in tutta la sua immensità riflesso nella piccola creatura. Questa propensione a relazionare la persona amata ad un elemento astrale ha un precedente diretto nella Butterfly, quando la protagonista, rivolgendosi allo sposo, prorompe: «adesso voi | siete per me l’occhio del firmamento».

L’atto terzo comincia «nella luce incerta della prim’alba», che è poi «alba invernale» respirata da Rance e compagni in opposizione alla buona stella di Johnson, «scaldato | dal respiro di Minnie, accarezzato, | baciato…». Ma «a poco a poco la luce del giorno va rischiarando la scena» sino a che «la luce del giorno è ormai chiarissima. Le vette scintillano al sole fra gli alberi». Questo, e ormai non può considerarsi casuale, dopo la notizia che Johnson è stato catturato per essere giustiziato. Se la notte è stata testimone di momenti di amore e tenerezza esaltati anche da una situazione drammatica, la luce del giorno risulta ideale per dare il massimo rilievo ad un’azione macabra quale un impiccagione neanche troppo meritata. Sino alla fine non abbiamo più alcun riferimento alla luce del sole, non più citata visto il lieto fine favorito dal provvidenziale arrivo di Minnie. Che un abbinamento inusuale come quello che lega il sole a situazioni cariche di negatività, riscontrato per la prima volta in Bohème, continui ad essere adottato sistematicamente anche quando termina la collaborazione con Illica e Giacosa, sembrerebbe confermare il ruolo sempre più attivo di Puccini al confezionamento del libretto. Va peraltro rilevato che la rinuncia ad un collaboratore del calibro di Illica si fa sentire anche per quanto riguarda l’ideazione di situazioni sceniche che permettano alla luce di campeggiare. A livello qualitativo come quantitativo, il rilievo che questa assume non è paragonabile alle tre grandi opere scritte in precedenza da Puccini.

Anche La rondine si apre con un interno che, dalle vetrate, suggerisce un «pieno crepuscolo», quando «i riflessi rossastri del tramonto illanguidiscono». Quanto proferito da Prunier di lì a poco, («forse, come la rondine, | migrerete oltre il mare, | verso un chiaro paese | di sogno… verso il sole, | verso l’amore… | e forse…»), viene interpretato da Magda in modo sensazionale, ma estremamente rivelativo. Ebbene, dopo queste parole che suonano effettivamente sibilline e appena malinconiche, Magda interviene con «Un cattivo presagio?…». Nonostante Prunier riferisca di un paese di sogno e di amore, Magda esaspera il significato di quei versi in direzione disgraziata. Che l’avere menzionato il sole porti versi idilliaci a virare in destinazione funesta, non è ormai una novità. E che i versi di Prunier potessero più correttamente essere interpretati in modo meno angosciato lo conferma il momento in cui Magda li ripete a sè stessa. Abbinandoli a ‘Bullier’, infatti, «il suo viso s’illumina di un sorriso». In chiusura del secondo atto, immediatamente dopo la rottura fra Magda e Rambaldo, leggiamo: «i primi chiarori freddi dell’alba non illuminano che tavoli in disordine, fiori sparsi e sfogliati per terra, bicchieri rovesciati. Tutta l’infinita tristezza d’una festa passata è in queste prime luci mattutine». E la ‘voce lontana’ ribadisce : «son l’aurora che nasce per fugar | ogni incanto di notte lunar! | Nell’amor | non fidar!». Viene confermato l’atteggiamento agonistico con il quale le varie fasi del giorno si succedono. E l’acme dello scontro è dato dall’arrivo del giorno, cinico demolitore di malie notturne.

Il terzo atto è ambientato in un «pomeriggio avanzato d’una magnifica giornata di primavera”. La separazione fra Ruggero e Magda, sofferta ma non tragica, sembra non avere bisogno di una forte luce solare, atta ad evidenziare ben altre sciagure. Non è esente da connotati comici il fatto che, dopo aver rivelato i suoi propositi di matrimonio a Magda Ruggero, cerchi ingenuamente di allettarla con parole evidentemente controproducenti: la «mia casa | che intorno ha un orto e in faccia la collina | che si risveglia al sole, la mattina», e «chi sa che a quel sole mattutino | un giorno non si tenda lietamente | la piccola manina d’un bambino». La precisione balistica di Ruggero fa centro: «Magda singhiozzando sommessamente, a poco a poco si è tutta ripiegata su di lui». Il povero Ruggero non poteva sapere che le poetiche immagini di sole non evocavano positività in chi doveva poi tirare le fila della trama.

Abbinare sistematicamente il sole a momenti tristi, quando non tragici, è uno stereotipo che evidentemente Puccini ritiene particolarmente significativo per la rappresentazione teatrale, ma che non ha alcuna valenza per la sua vita privata. Non è da ritenere che Puccini, fuori dal teatro, credesse realmente operante una correlazione diretta fra luce solare e situazioni penose. Alcune lettere, infatti, indicano quanto il sole connotasse per lui esclusivamente positività. A Giulio Ricordi scrive: «Dunque, concludendo, mi lasci qua tranquillo a bevermi di questo splendido sole e a bearmi di questo paese incantevole».54 Sempre all’editore comunica che «le sue lettere sono il raggio di sole in questa noiosa villeggiatura che chiamerei piuttosto domicilio coatto!».55 A Giuseppe Adami scriverà, gioendo per la longevità delle sue opere: «Caro Adamino, fin che vedo all’Olimpia il solito titolo, il sole splende – e splenda ancora per molto ancora».56 Escludendo un’ossessione vissuta in prima persona e limitandoci alla sfera teatrale, l’associazione del sole a momenti dolorosi è comunque affatto straordinaria e difficilmente riconducibile a precedenti letterari o filosofici.

La tecnica drammatica pucciniana di usare sistematicamente la luce solare come mezzo di contrasto per dare maggiore spessore al dramma scenico, sarebbe così spiegata da Franco Fornari:

Per quanto possa apparire bizzarra, tale situazione ci porta a un evento naturale, la cui drammaticità costituisce per tutta la nostra vita, una vicenda traumatica, destinata a influenzare profondamente tutte le nostre esperienze affettive. La condizione originaria del bambino dentro la madre, che comporta una specie di beatitudine primaria, è il fondamento di ogni affetto positivo. La nascita – parto costituisce invece una specie di sciagura originaria, adombrata dalla cacciata dal Paradiso Terrestre. La nascita è in realtà un rischio di morte, sia per la madre, sia per il bambino. In questo senso, il parto – nascita, come già ho rilevato, può essere considerato come il modello naturale di ogni violenza, implicante due persone.57

La luce solare potrebbe così rimandare alla ‘sciagura originaria’ della nascita, momento in cui il nascituro deve rinunciare alla stabilità ed alle sicurezze prenatali, per fare i conti con un’esistenza autonoma. La notte, di cui la luna è simbolo, potrebbe invece ricordare al nostro inconscio proprio quella situazione intrauterina, Eden irrimediabilmente perduto. L’impossibilità di poter mettere in qualche modo alla prova conclusioni di tale natura non significa che i risultati di indagini sull’inconscio non debbano essere, se non veri, almeno giustificati.

Il tabarro si apre con Michele che contempla un tramonto. Giorgetta lo chiama e gli domanda: «Non sei stanco | d’abbacinarti al sole che tramonta?». Le tinte esasperate di questo tramonto ricordano quelle di Edgar e come quelle preludono ad esiti tragici. La differenza sta nel raffinato carico di angoscia che «la macchia rossa»58 del Tabarro si porta con sé sino al suo bestiale scaricarsi nell’omicidio. La lentezza esasperante con la quale il sole digradante illumina un’umanità arsa ed appassita origina una situazione teatrale del tutto nuova. Si ricorda la soluzione dell’atto quarto scena sesta de La forza del destino (1862): «è il tramonto. La scena si oscura lentamente; la luna apparisce splendidissima». Il tramonto funge dunque da rapida transizione, così come, e senza tornare così indietro nel tempo, nella Fanciulla del West, dove la luce «va calando rapidamente», e nella Rondine, quando «i riflessi del tramonto illanguidiscono». Nel Tabarro il tramonto infuocato presiede a lungo, sino all’apparizione del cantastorie: «GIORGETTA: Già discende la sera… | Oh che rosso tramonto di settembre! | Che brivido d’autunno!… Non sembra un grosso arancio questo sole | che muore nella Senna?… O mio uomo, non sei di buon umore! | Perché?… Che hai?… Che guardi?… E perchè taci?…». Questa persistente presenza di un sole che impone lo «schermo con la mano agli occhi, tanto è vivo il riflesso», di un sole che ‘abbacina’, concorre a creare un’enorme tensione repressa. Nuovamente, la luce solare non è veicolo di positività, ma contribuisce ad illuminare una disgraziata condizione umana che sembra consumarsi anche per l’azione di una natura dai connotati non benigni.

La Frugola sogna: «il mio vecchio steso al sole, | ai miei piedi Caporale, | e aspettar così la morte | ch’è rimedio d’ogni male!». E’ ribadito così un meccanismo automatico molto vicino al riflesso condizionato: rammentare il sole porta inesorabilmente la morte a fare capolino. In un oscurità ormai completa si consuma il dramma. Nel dialogo con Giorgetta, Michele ricorda le sere e le notti di un passato non lontano: «ora le notti sono tanto fresche… | E l’anno scorso là in quel nero guscio | eravamo pur tre… c’era il lettuccio | del nostro bimbo…», continuando: «erano sere come queste… | Se spirava la brezza, | vi raccoglievo insieme nel tabarro | come in una carezza…». Michele rammenta dunque il felice passato che contrasta con lo squallore del presente, e ancora insiste: «non ti ricordi | altre notti, altri cieli ed altre lune?». Dunque nel Tabarro l’oscurità e la notte connotano stati d’animo contrastanti, essendo funzione di variabili temporali quali il passato ed il presente. Nel ricordo di Michele le notti vengono collegate a momenti di serenità e felicità per i fortissimi legami familiari, mentre attualmente non danno che un gran tormento per la certezza di essere tradito, ed un’infinita nostalgia per tempi che non ritorneranno.

Viene così momentaneamente recuperata l’immagine della notte offerta dalle Villi: notte come momento in cui il passato proietta la sua luce sinistra ad esaltare un presente tormentato e sul punto di risolversi in tragedia. La sofferenza interiore di Michele viene ulteriormente esasperata dagli amanti che transitano sulla strada, per i quali una notte di luna conserva tutto l’incanto che le compete: «Bocca di rosa fresca… | e baci di rugiada… | o labbra profumate… | o profumata sera… | c’è la luna che illumina la strada… | la luna che ci spia… | a domani, mio amore… | domani, amante mia!…». L’amore intensifica l’incanto notturno, e ne è a sua volta esaltato; quando l’amore viene però infranto, la notte diventa un tormento. Il modo di viverla è dunque funzione dell’amore. Ma nell’esacerbato monologo, Michele sembra volere fare della notte il giorno, riaffermando così ancora una volta che una tragedia può essere tale solo se accompagnata da una luce quasi diurna, che permetta cioè di cogliere cinicamente tutti i tratti particolari della truce situazione. «Ah!… Squarciare le tenebre!… Vedere!… | E serrarlo così, tra le mie mani! | e gridargli: Sei tu!… Sei tu!…». La notte non è comunque più solo il momento della maliarda complicità con gli innamorati, ma può evidentemente essere spettatrice di azioni tutt’altro che idilliche. Ciò, quando il misterioso filo che lega gli amanti viene lacerato. Come il tabarro, la notte «asconde | qualche volta una gioia, | qualche volta un dolore…».

Anche Suor Angelica si apre con un tramonto: «un raggio di sole batte al di sopra del getto della fonte». Come nella prima opera del Trittico, il sole gioca un suo ruolo: «…una spera di sole | è entrata in clausura! | … Comincian le tre sere | della fontana d’oro!». Per le suore, «è il bel sorriso di Nostra Signora | che vien con quel raggio», mentre la maestra delle novizie spiega che «per tre sere dell’anno solamente, | Dio ci concede di vedere il sole | che batte sulla fonte e la fa d’oro». Il primo intervento di Suor Angelica è molto significativo: ad un’idea di Suor Genovieffa di portare un secchiello d’acqua indorata dal sole sulla tomba di una sorella che lo desidererebbe, Suor Angelica precisa che «i desideri sono i fiori dei vivi, | non fioriscono nel regno della morte». La considerazione positiva nei confronti del sole vale cioè soltanto nella vita terrena, che non è vera vita. Infatti, «la morte è vita bella!». Il sole rappresenta dunque la caducità dei valori terreni, sublimati da coloro che vivono in eterno. Perde così tutti quei connotati di positività comunemente attribuitigli, ma non dal Puccini operista. Come per il Tabarro, si è scelto il tramonto del sole per accrescere una tensione allo stato latente, e la notte per permettere l’esplosione dell’ansia accumulatasi.

Però Suor Angelica vive ancora su questa terra, ed il desiderio di avere notizie del figlio si avvera proprio quando «il getto della fonte si è indorato». Ma il sole che indora il getto d’acqua non è buon presagio, come conferma la Zia Principessa. Dopo aver saputo della morte del figlio, si legge che «nel parlatorio è già la semioscurità della sera…»; poi, che «la sera è calata». Suor Angelica riafferma che «la grazia è discesa dal cielo!», e «la notte avvolge il chiostro. Sulla chiesetta si va illuminando a poco a poco una scintillante cupola di stelle. La luna dà sui cipressi». Ennesima conferma, dopo la parentesi del Tabarro, come alla luna venga attribuito decisamente un alone di positività. Tanto è vero che, nel momento in cui Suor Angelica comprende di essere destinata alla dannazione, «le nubi coprono adesso la luna e le stelle; la scena è oscura». Improvvisamente questa è inondata di una «mistica luce» che accompagna il miracolo della Vergine, ma che non proviene dal sole, troppo compromesso per la sua capacità di accrescere drammi terreni. Qualcosa che lo sopravanza in chiarore e sfolgorio è confacente ad esaltare l’eccezionalità di un evento dalla natura divina.

Rimangono due lettere che confermano quanto l’interesse di Puccini per l’illuminazione si mantenesse vivo anche per risolvere dettagli di messa in scena. All’amico Riccardo Schnabl, che cura il Trittico rappresentato ad Amburgo nel 1921, egli scrive:

Per il miracolo, [in Suor Angelica, ovviamente] dove non si può fare quello di Vienna, converrà attenersi al molto semplice e modesto. La madonna, due angeli, una corona di lampadine mignon all’aureola (in resistenza), un fondalino e stelle in cielo blu, una lampadina fra i fiori che la madonna tiene vicini alla gola e la luce riflette sul viso. Cosa facile, pratica, e tutto l’ambiente, chiesetta, intonata di bleu e ciao.59

Ancora con tono preoccupato, si rivolge a Schnabl: «Spero tu tornerai qui, mi spiegherai il miracolo coi vapori; e anche ai fiori facesti qualcosa di fantasia? Lì ci vorrebbe una trovata: piccole luci bleu violette nei cespugli all’atto di cogliere i fiori velenosi»60. Luigi Ricci, che affiancò Puccini negli allestimenti delle sue opere, ricorda che certi effetti di luce dovevano essere, ne’ più ne’ meno, delle modulazioni tonali: ottiche quanto vi pare, ma rivolte a concorrere, con quelle auditive, all’emozione artistica di tutto l’insieme. Parlando un giorno con Mascagni, Puccini ebbe occasione di dire con acutissima immagine che gli effetti di luce da lui sognati avrebbero dovuto essere regolati «da un orecchio attentissimo».61

«Luce di sole e luce di candele: sono le nove del mattino»: così si apre il Gianni Schicchi. Le tre opere del Trittico hanno dunque un’apertura comune, con il sole a presiedere allo svolgimento di azioni motivate da una morte più o meno remota. L’abbinamento sole/morte si riconferma una costante comune nei libretti delle opere pucciniane. Buoso Donati è deceduto da poco, ed il suo riposo eterno è accompagnato dalla luce del sole, che per l’ennesima volta si dimostra estremamente congeniale a situazioni di morte. La luna si dimostra invece ancora una volta consona a momenti idilliaci: «Rinuccio, non lasciarmi! | Ah! tu me l’hai giurato | sotto la luna a Fiesole | quando tu m’hai baciato!». Ma il sole si riscatta decisamente nel finale, quando il suo splendore è perfettamente intonato alla felicità di Lauretta e Rinuccio. «Dal fondo apre di dentro le persiane del finestrone; appare Firenze inondata dal sole; i due innamorati restano sul terrazzo». Contemplando la meraviglia che si presenta ai loro occhi, rammentano però Fiesole, dove si sono dichiarati reciproco amore. Rinuccio ricorda che Lauretta, «tremante e bianca», si volse, in modo che «Firenze da lontano | ci parve il Paradiso!…». Il biancore di Lauretta è dovuto ai raggi lunari che le colpiscono il volto. Per la prima volta dunque, un’opera di Puccini pone sullo stesso piano sentimentale sia la luna sia il sole, connotanti entrambi momenti di grande serenità interiore. Mosco Carner ritiene che il periodo ‘classico’ inaugurato da Puccini proprio con il Trittico, denoti un allentamento delle ossessioni della sfera sessuale,62 evidenziabili nella produzione precedente. Sembrerebbe effettivamente che, equiparando nel positivo la luce solare e quella lunare, il Gianni Schicchi funga da distensiva sintesi degli altri due episodi, che avevano invece accomunato giorno e notte in prospettiva tragica.

Una lettera a Renato Simoni del dicembre 1920, ricorda come ormai Puccini prenda per mano il librettista, guidandolo per un percorso già perfettamente tracciato e bisognoso solo, crocianamente, di concretarsi in versi:

Caro Renato, eccoti una specie di guida dell’atto secondo. 2° atto: molto schematico – esser rapidi e fermarsi solo dove la lirica esige; entrata di Turandot nervosa; Nessun dorma – Pechino, romanza tenore; tentazioni: bere, dorme, niente banchetto. Le maschere sono gli offerenti e i protagonisti della scena. Invito a dire il nome, per la vita loro. Calaf: No, perdo Turandot – invito a fuggire – no – allora piccolo complotto a parte e minaccia morte – Niente incubi – sopraggiunge Turandot – duetto più corto – tortura più corta. I tre annunziano spaccato cuore – L’ho perduta, mio cuore perché batti? Liù dice di voler restare, tentare pietà Turandot – BUIO – Scena camera drappeggiato, schiave e Liù – Turandot punta di gelosia – scena non lunga – BUIO – Ultima scena: grande palazza BIANCO – Pegonie, tutti già pronti compreso imperatore a posto – SOLE NASCENTE; Calaf: addio al mondo, all’amore, alla vita – Il nome? non lo so, lapidario: Gran frase amore con bacio moderno e tutti presi si mettono la lingua in bocca.63

Si attesta per l’ennesima volta l’importanza che per Puccini rivestiva la luce e come la sua azione dovesse essere progettata in sincronia con la stesura della trama. Altre lettere testimoniano come Turandot sia stata concepita addirittura come drammatizzazione di atteggiamenti luminosi: «Caro Adamino, io non sono perplesso. Penso che Turandot in due atti è nella giusta misura. L’azione comincia al tramonto e finisce colla susseguente alba. Quel 2° atto di notte con principio d’alba alla fine… Mi pare dunque esaurire coll’alba fiorita e col levar del sole».64 Sempre ad Adami scrive: «Buio – cambiare scena. camera gialla e rosa – scena Turandot schiave, paludamento. Punta di gelosia. Buio, poi ultima scena, grandiosa bianca e rosa: Amore! Che ve ne pare? Se va bene vengo giù da Simoni e in pochi giorni si fa un grande atto».65 Luci e colori: un turbinio che affascinava Puccini e lo convinceva di avere imboccato la strada giusta. Ma uno straordinario passo di una lettera ad Adami scolpisce a chiare lettere come l’esplosione d’amore ed una luminosità sensazionale fossero intimamente connesse:

Urge commuovere alla fine – e potrete voi trovare il verso. Poca retorica! e il travaso d’amore giunga come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estaticamente assorbe l’influsso amoroso attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli gementi.66

Oltre che con la musica, Puccini è capace di risultare toccante anche con la parola, riuscendo inoltre a veicolare interessanti spunti di poetica. Per chi sia fornito di pensiero sinestesico, questo è il vero finale di Turandot, che la morte del compositore ha impedito di tradurre esaustivamente in note.

Nella didascalia iniziale di Turandot si legge che «quando si apre il velario siamo nell’ora più sfolgorante del tramonto». Non passa però molto che la luna viene ricordata: infatti «il Principe di Persia | avversa ebbe fortuna: | al sorger della luna, | per man del boia | muoia!». Era dai tempi delle Villi ed Edgar che la luna non era associata a situazioni negative. L’ultima opera di Puccini mostra immediatamente un deciso mutamento di rotta nei confronti delle sue grandi opere di repertorio. E’ proprio al sorgere della luna che Turandot appare, ed è il momento che coincide con l’esecuzione del nobile persiano. La principessa è definita «bianca al pari della giada, | fredda come questa spada». Una didascalia di poco posteriore recita che «l’oro degli sfondi s’è tramutato in un livido colore di argento. La gelida bianchezza della luna si diffonde sugli spalti e sulla città». Bianca e fredda è Turandot mentre gelida bianchezza qualifica la luna. Si direbbe che la principessa ed il pianeta siano due aspetti della medesima cosa, enti consustanziali. E’ stato fatto un ulteriore e deciso passo in avanti rispetto alla Butterfly: qui abbiamo visto la protagonista porsi in un rapporto di somiglianza con la luna, mentre Turandot si direbbe la sua incarnazione. Il personaggio si è fatto luce, o, se preferiamo, la luce ha preso sembianze antropomorfe.

La lunarità di Turandot è ribadita frequentemente: «un raggio di luna la illumina. La Principessa appare quasi incorporea, come una visione», «gelo che ti dà foco! E dal tuo foco | più gelo prende! Candida ed oscura! [quasi in riferimento alla faccia visibile e nascosta della luna]»; «due ancelle coprono il volto di Turandot con un velo trapunto d’argento». L’imperatore Altoum suo padre è chiamato da Calaf «figlio del cielo»; ancora Calaf la prega: «dal tuo tragico cielo | scendi giù sulla terra!», mentre lei gli risponde che «cosa umana non sono… | son la figlia del cielo | libera e pura!». Ma un sospiro di scoramento della Principessa fa veramente trasecolare: «Turandot tramonta!…». La luna – Turandot cede così il passo all’alba, che prelude ad un binomio che ineluttabilmente deve essere ormai accettato: il binomio sole – amore. «E’ l’alba! E’ l’alba!… E amor nasce col sole!..». E Turandot, che sino ad ora ha dispiegato la sua lunarità, evidentemente si è trasmutata in essere solare: «il tuo nome, o principessa, è Luce…».

Anche Franco Fornari ha rilevato analogie fra Turandot e la luna:

[…] la spada viene anche identificata con la stessa Turandot, definita «fredda come una spada». «Gelida» è anche detta la luce della luna, che manda un colore livido. La spada, Turandot e la luna sono in qualche modo omologate e presentate come portatrici dello stesso sentimento drammatico e freddo, che rimanda alle nevi che non si sciolsero, della canzone dei ragazzi, nella quale i principi uccisi erano omologati ai bambini non nati.67

L’isomorfismo di luna e donna trova dei precedenti nella tradizione francese della seconda metà dell’ Ottocento: Hugo rappresenta nella lotta di luce ed ombra, di sole e luna, il sogno escatologico della riconciliazione; […] il riscatto attraverso l’amore [è un motivo che emerge] da Lélith, ou le génie de la nuit, poema progettato e mai scritto da [Alfred de] Vigny; […] come osservato per Vigny, [in Nerval] le polarità si fondono, compendiandosi in un’unica figura dove positivo e negativo si integrano armoniosamente; donna infernale e donna celeste […] due facce di un unico astro che, così come muore e rinasce, dà la morte e la resurrezione.68

Questi rilievi potrebbero avere come oggetto la Turandot di Puccini, che riconferma così la sua propensione alla cultura letteraria francese. Ma il precedente più immediato ed altisonante di donna creatura siderea è la Salomè di Oscar Wilde. «Salomè è il dramma del calare della luna e la sua azione coincide perciò con il progressivo decrescere e l’estinguersi dell’astro. Salomè è il dramma della luna al tramonto».69 Questi caratteri si perpetuano nell’omonima opera di Richard Strauss: «Piacemi contemplar la luna. Chè fredda, quale un fiore d’argento, essa m’appare. Sì: m’appare come il volto di donna ancor non tòcca»,70 canta nella scena seconda Salomè, che molte altre volte si relaziona e viene relazionata all’astro notturno. Puccini conosceva molto bene la Salomè di Strauss e, pur con delle riserve, l’ammirava. Non è dunque da escludere che, stimolato proprio da un’opera che lo aveva quanto meno interessato,71 abbia tentato di proporne una variazione sul tema. Egli non era infatti nuovo a sfide impegnative: ricordiamo che Manon Lescaut e Bohème erano nate sull’onda delle produzioni di Massenet e Leoncavallo. Una lettera a Ricordi del 14 novembre 1906 conferma il piglio combattivo di Puccini quando veniva solleticato da artistica gara: «M’è arrivato il manoscritto di Oscar Wilde: Tragedy Florentine (un atto) che a me piace tanto. E’ un atto, ma bello, alato, forte, tragico… sarebbe un contraltare a Salomè, ma più umano, più vero, più nelle corde di noi tutti».72

Straordinario dramma della luce, Turandot sembra poter reggere ad una lettura di tipo astronomico. In scena è l’eterno scontro-incontro di fasi profondamente diverse, che non possono non stemperarsi l’una nell’altra, riproponendo, sotto mentite spoglie astronomiche, il mistero del perenne rinnovarsi dell’amore e nell’amore. Questa conclusione presuppone il conflitto notte/giorno già incontrato con «l’aurora che nasce per fugar | ogni incanto di notte lunar!» della Rondine, comunque superato dalla sintesi nell’amore di Turandot. Ma presuppone inoltre la conclusione del Gianni Schicchi, che pone su un piano di assoluta parità nel positivo sia la luce lunare sia quella solare. La siderea morale che la notte non può fare a meno di sposarsi al giorno per continuare ad esistere, trova una perfetta corrispondenza con una sentenza che può distillare il significato della superba favola: «amor che a nullo amato amar perdona». Questo articolo di fede spiega non solo il drammatico uscire di scena di Liù, ma anche il fatto che il suo estremo sacrificio non commuova assolutamente Calaf e Turandot, totalmente assorti nel raggiungimento dei propri obiettivi. Un processo naturale non può infatti modificare il suo cammino, ma procedendo lascia dietro sé dei cadaveri. Conclusione di carattere cosmico già trasfigurata sul versante poetico da un Leopardi il cui agonismo è peraltro estraneo alla rassegnazione pucciniana.73

Non si può pertanto accettare la conclusione di Gianandrea Gavazzeni, il quale afferma che anche Turandot l’avremmo voluta, sfinge precipitante, chiudendo il rifiuto all’amore con un ruinare di morte, con un Puccini che creando la più violenta frattura di linguaggio della sua vita artistica entrasse nel pieno di un suo originale e non ancora udito ‘espressionismo’. […] Nessuno e nulla mi convincerà mai che il ‘finale’ in positivo realizzato da Adami e Simoni e sul quale tanto ebbe a tormentarsi il musicista, sia quello che i caratteri formali, i timbri drammatici – i colori di morte, i geli, i tagli di luce illividiti – avevano pur indicato sin lì nell’opera […] la frattura che segue ‘la morte di Liù’ – la tagliente quarta vuota fissata negli appunti originali – accennava a una strada. C’erano le premesse di un ‘tragico’ che la conclusione ottimistica non avrebbe dovuto consentire.74

Far morire Turandot equivarrebbe a vanificare l’ipotesi di un dramma fondato sull’inesorabile trapasso da luce lunare a luce solare. Ma, anche a prescindere da un’interpretazione che tenga nel dovuto conto l’antagonismo di forze luminose, l’idea di Gavazzeni di un finale tragico non può convincere chi ripercorra l’epistolario pucciniano degli ultimi quattro anni. Dopo un viaggio straordinariamente travagliato, il ‘chiodo fisso’ del trionfo d’amore gli avrebbe infine fatto imboccare la strada giusta. Se Gavazzeni rintraccia nella ‘quarta vuota’ un presagio di morte, si può parimente rammentare la lettera indicante che «il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso…».75 In quel ‘deve’, si può leggere l’impegno che tormentò e sicuramente avrebbe ancora tormentato Puccini, ma che non gli avrebbe permesso di ‘buttare a mare’ quel finale che aveva così entusiasticamente perseguito da lungo tempo.

Turandot corona così un cammino, non rettilineo ma a suo modo inesorabile, dove la luce naturale, inizialmente specchio nel quale si riflettono i sentimenti dei personaggi (Le villi) e cornice alle vicende sceniche (Edgar), si afferma prima come motore dell’azione (da Bohème in avanti) per poi rapportarsi alla protagonista (Madama Butterfly) e identificarsi infine con questa (Turandot). Il processo si conclude con la vittoria del sole sulla luna, della luce sulle tenebre, ed «amore nasce col sole!». La liberazione incontrata nel Gianni Schicchi viene conseguita più lucidamente e sistematicamente con Turandot. Il sole è finalmente affermato come fedele compagno dell’amore, a sua volta «luce del mondo». Puccini sembra essere tornato sui propri passi, caricando di nuova vitalità un’accoppiata esaltata in una canzone da salotto del 1888, appunto Sole e amore. Da rilevare però che Gianni Schicchi è un’opera comica, l’unica scritta da Puccini, mentre Turandot è collocata al di fuori della storia: siamo infatti «a Pekino – Al tempo delle favole». Per riconsiderare il sole nei suoi connotati di positività Puccini ha dovuto abbandonare soggetti realistici per approdare a situazioni da commedia dell’arte e ad ambientazioni favolistiche. Entrambe spostano infatti il baricentro del «quid medium» fra reale e fantastico verso quest’ultimo.76 Per il «parossismo, corda tirata, espressione ultra eccessiva », difetti che Puccini imputava a D’Annunzio,77 anche il Gianni Schicchi non può essere considerato di natura realistica, a causa del sistematico ammiccamento dei personaggi e della conseguente esasperazione del gesto. L’inversione di tendenza delle ultime opere può essere interpretata alla stregua dell’ eccezione che non sconfessa la regola di un sole deputato ad illuminare e dunque amplificare la costitutiva infelicità dei personaggi, riflesso della sua travagliata condizione di uomo ed artista.78

Questo ci porta a concludere che il «’puramente umano’, la realizzazione del quale Wagner ricercava in una mitica preistoria […] la natura umana riscoperta e non più alterata dalle convenzioni»,79 non è poi così lontano dall’apparente disimpegno delle opere pucciniane. Ma i riferimenti a Wagner non possono non essere estesi alla concezione teatrale del lucchese, vista la distinzione operata da Mosco Carner. Quando egli affermava che Puccini mirava «al dramma musicato e non al dramma musicale (nel senso wagneriano del termine)»,80 non sarebbe stato superfluo specificare quale fosse questo senso. Carl Dahlhaus inizia infatti il suo esaustivo saggio affermando: quest’idea non è mai stata colta in un concetto dai contorni ben definiti […] nessuna delle sue opere, né delle prime né delle più tarde, è stata designata da Wagner semplicemente ed apertamente come Drama. E la terminologia, per quanto di per sé possa apparire marginale o addirittura irrilevante, non è priva di significato, così come le incertezze linguistiche sono indice ed espressione di un disagio nei riguardi della cosa stessa e della sua comprensione.81

Si afferma cioè che il concetto di ‘dramma’ non era poi così chiaro, da un punto di vista razional-sistematico, neanche al grande tedesco. Dahlhaus cita anche la famosa frase «l’errore nel genere artistico dell’opera consisteva nel fatto che un mezzo dell’espressione (la musica) diveniva lo scopo, mentre lo scopo dell’espressione (il dramma) diveniva il mezzo»,82 commentando che «il testo, la poesia, non diversamente dalla musica, viene inteso da Wagner come mezzo del dramma, non come sua essenza».83 Dunque «Wagner era incline a sottolineare nel dramma, che egli concepiva come «dramma che realmente si svolge di fronte ai nostri occhi», più il momento mimico-scenico che non quello testuale; egli era in primo luogo-per usare nel suo senso proprio un termine di cui si è abusato per screditarlo-un teatrante».84 Wagner e Puccini possono dunque già dirsi accomunati da un orizzonte critico che vede nell’uno un ‘teatrante’, nell’altro un ‘uomo di teatro’.

Anche se precipuamente da un angolazione ‘luminosa’, si è visto quanto Puccini curasse il libretto in funzione della resa scenica, e come possa esserne considerato perfino progettista e direttore dei lavori. Il fatto che effettivamente, quando poteva, preferisse aspettare il verdetto della ribalta per rivestire di musica un dramma in prosa riconferma l’irrinunciabile esigenza di un soggetto che sapesse reggersi sulle proprie gambe. Puccini si avvale così della rappresentazione recitata come uno strumento di chirurgica precisione per convincersi in prima persona e non votarsi ad un insuccesso. Questa non solo non può essere considerata tattica anti-wagneriana, bensì un’opportunità avallabile dallo stesso tedesco, che lascia scritto:

A ben guardare [-scriveva nel 1872 nel saggio Uber Schauspieler und Sanger (Attori e cantanti)-] dobbiamo perciò riconoscere che nelle rappresentazioni teatrali la parte artistica vera e propria deve essere attribuita agli attori, mentre l’autore del dramma entra in contatto con l’Arte vera e propria solo in quanto egli, nella composizione del suo lavoro, ha saputo prima di tutto calcolare in anticipo e valorizzare l’effetto dell’interpretazione mimica.85

Incline dunque a ‘calcolare in anticipo’ l’effetto scenico verificandone l’efficacia anche come spettatore, Puccini deve dunque a pieno titolo essere considerato sia l’erede italiano di Wagner sia drammaturgo musicale che ha varcato ampiamente «le frontiere che delimitano il regno della grandezza assoluta».86

 

articolo tratto da Michele Bianchi, «E diedi il canto, agli astri, al ciel». La luce naturale nei libretti musicati da Giacomo Puccini, I parte, «Diastema», V, n.11, novembre 1995, pp.39-47.

 

Note

1 I libretti musicati da Verdi sono citati da: Tutti i libretti di Verdi. Introduzione e Note di Luigi Baldacci, Garzanti, Milano 19924.

2 Vedi ad esempio: Luciano Alberti, «I progressi attuali [ 1872 ] del dramma musicale». Note sulla Disposizione scenica per l’opera «Aida» compilata e regolata secondo la messa in Scena del Teatro alla Scala da Giulio Ricordi, in Il melodramma italiano dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1977, pp.125-55.

3 Mercedes Viale Ferrero, Luogo teatrale e spazio scenico, in: Storia dell’Opera Italiana, vol.5 La spettacolarità, E.D.T., Torino 1988, p.45.

4 Ivi, p.44.

5 Eugene Scribe – Jean Francois Delavigne, Roberto il diavolo, Arti grafiche Bandettini, Firenze 1968.

6 Viale Ferrero, p.98.

7 Ivi, p.99.

8 In: Marcello Conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Il Saggiatore, Milano 1983, p.159. Citata anche in: Viale Ferrero, p.99.

9 Viale Ferrero, p.45.

10 Senza data, in: Giuseppe Adami, Epistolario di Giacomo Puccini, Mondadori, Milano 1928, n.179, pp.259-60.

11 Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica, traduzione di Luisa Pavolini (edizione originale: Puccini. A Critical Biography, Gerald Duckworth & Co., London 1958), Il Saggiatore, Milano 19814 (19611), p.114.

12 Ivi, p.391. Vedi nota 59.

13 Ivi, p.501.

14 Fausto Torrefranca, Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Bocca, Torino 1912, p. 71.

15 Le citazioni dai libretti delle opere di Puccini sono desunte da: Tutti i libretti di Puccini, a cura di Enrico Maria Ferrando, Garzanti, Milano 1984.

16 Viale Ferrero, p.108.

17 Friedrich Kind, Il franco cacciatore, traduzione italiana di Franco Faccio, Ricordi, Milano 1986.

18 Luigi Grassi, Sublime, in: Dizionario della Critica D’Arte, UTET, Torino 1978.

19 Le citazioni dai libretti di Wagner sono tutte desunte da: Tutti i libretti di Wagner, a cura di Olimpio Cescatti, UTET, Torino 1996 (Garzanti, Milano 1992).

20 Ivi, p.315.

21 Carner, p.422.

22 Claudio Casini, Puccini, UTET, Torino 1978, p.82 e 196; CARNER, p. 371.

23 Casini, p.195-6. «Anzitutto, il libretto non è verista, così come non lo è l’opera», è affermazione perentoria del Casini, il quale poi, se discute ampiamente ed in modo convincente l’antiverismo dell’opera, non lo evidenzia altrettanto dettagliatamente nel libretto.

24 Franca Cella, Giuseppe Giacosa, in: Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, Le Biografie, vol.III, UTET, Torino 1986, p.187.

25 Giuseppe Giacosa, Come le foglie, Einaudi, Torino 1991, pp.75-81.

26 Dario Durbé, L’impressionismo e l’arte moderna, in: L’arte moderna, vol.I, Fratelli Fabbri, Milano 1975 (nuova edizione), p.19.

27 Franca Cella, Dalla scapigliatura al gusto liberty, in: Storia dell’Opera, vol.III tomo secondo, UTET, Torino 1977, p.279.

28 Michel Carré – Jules Barbier, Mignon, traduzione italiana di Giuseppe Zaffira, Sonzogno, Milano 1983.

29 Jules Barbier – Michel Carré, Romeo e Giulietta, versione ritmica italiana di Franco Lorenzo Arruga, Sonzogno, Milano 1977.

30 Ferdinand Lemaire, Sansone e Dalila, versione ritmica dal francese di A.Zanardini, Sonzogno, Milano 1974.

31 Maurice Maeterlinck, Pelleas et Melisande, versione ritmica di Carlo Zangarini, Sonzogno, Milano 1979.

32 A Giulio Ricordi, 21 luglio 1894, in: Eugenio Gara, Carteggi Pucciniani, Ricordi, Milano 1958, n.109, pp.104-5.

33 Giuseppe Giacosa a Giulio Ricordi, 21 giugno 1895, in: Gara, n.122, p.114.

34 Idem.

35 Giuseppe Giacosa a Giulio Ricordi, 25 giugno 1895, in: Gara, n.123, pp.114-5.

36 George R. Marek, Puccini, Cassell, London 1952, lettera del 20 giugno 1895, p. 144. Non risulta che le lettere dal Marek, tradotte in inglese, siano mai state pubblicate in originale.

37 Carner, p.391.

38 Ivi, p.114.

39 Ivi, pp.369-71.

40 Ivi, p.498.

41 Ivi, p.493.

42 A Luigi Illica, 9 giugno 1900, in: Gara, n.232, pp.200-1.

43 Aldo Valleroni, Puccini minimo, Priuli & Verlucca, Ivrea 1983, p.191.

44 A questo proposito vedi: Puccini e i pittori a cura di Simonetta Puccini, Catalogo della Mostra al Museo Teatrale alla Scala 23 ottobre-18 dicembre 1982, Museo Teatrale alla Scala Istituto di Studi Pucciniani, Milano 1982. Molto interessante: Raffaele Monti, I pittori di Puccini, pp.17-34, sia per la collocazione critica dei pittori amici del compositore, sia per alcuni giudizi sulla figura dello stesso Puccini di grande acutezza interpretativa e psicologica.

45 Carner, p.541.

46 Richard Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, traduzione a cura di Alfio Cozzi, Rizzoli, Milano 1963, p.38.

47 Da: Il cantico del gallo silvestre. I passi citati sono stati desunti da: Giacomo Leopardi, Canti, Loescher, Torino 19762; Giacomo Leopardi, Operette Morali, Loescher, Torino 19753.

48 A Luigi Illica, 1 ottobre 1901, in: Gara, n.261, p.214.

49 Ad Arturo Toscanini, 12 ottobre 1905, in: Gara, n.430, pp.298-9.

50 Ad Arturo Toscanini, ottobre 1905, in: Gara, n.431, p.299.

51 A Luigi Illica, 10 giugno 1904, in: Gara, n.384, p.276.

52 A Luigi Illica, 25 novembre 1906, in: Gara, n.496, pp.334-5.

53 Guido Marotti – Ferruccio Pagni, Giacomo Puccini intimo, Vallecchi, Firenze 1926, p.105.

54 A Giulio Ricordi, novembre 1895, in: Gara, n.146, pp.133-4.

55 A Giulio Ricordi, 9 agosto 1895, in: Gara, n.128, p.118.

56 Senza data, in: Adami, n.188, p.266.

57 Franco Fornari, Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano 1984, p. 116.

58 A Luigi Illica, febbraio 1913, in: Gara, n.619, p.410.

59 Giacomo Puccini, Lettere a Riccardo Schnabl, a cura di Simonetta Puccini, Emme Edizioni, Milano 1981, 1 febbraio 1921.

60 Ivi, 3 febbraio 1921.

61 Luigi Ricci, Puccini interprete di se stesso, Ricordi, Milano 1954, p.13. Vedi nota 12.

62 Carner, p.578 e 607.

63 A Renato Simoni, dicembre 1920, in: Gara, n.777, p.496.

64 3 settembre 1921, in: Adami, n.192, pp.268-9.

65 14 settembre 1921, in: Adami, n.193, pp.269-70.

66 Senza data, in: Adami, n.188, p.266. Una riflessione sull’evoluzione giorno-notte la offre nientemeno che Piet Mondrian: «L’aspirazione verso l’equilibrio e quella verso lo squilibrio si contrappongono continuamente in noi. Questo tragico non è altro che una cultura verso l’equilibrio la quale si impone man mano che sentiamo l’oppressione del tragico, oppressione causata dalle due polarità della vita e dal desiderio di liberarcene. L’oppressione di questo tragico, un sentimento di sofferenza senza fine, viene da noi subita all’alba: è questa un’emozione provata da ogni artista ed è espressa, in pittura, dal paesaggista. All’alba domina ancora la notte. La fievole luce cerca di vincerla. Si sente l’oppressione dello squilibrio notte-giorno, chiaro-scuro. E’ l’aspirazione verso l’equilibrio. La speranza-disperazione. L’assenza di certezza. E’ l’attesa del pieno giorno. Pieno giorno: unità per equivalenza di luce e d’ombra. La notte: il passato. Pieno giorno: il futuro; l’uomo e la natura unificati. Il presente: l’alba, la fine della notte. L’alba: l’evoluzione. […] La vita naturale è una ripetizione continua di notte-giorno, vita-morte (il tragico) e che la vita dell’‘uomo’ non è altro che un’evoluzione verso l’equilibrio della sua dualità. […] La vita umana, benché dipendente dal fisico, dalla materia, non resterà sempre dominata dalla natura. Ma l’equilibrio ottenuto mediante l’equivalenza dei rapporti sarà raggiunto nel modo più approssimato in ogni creazione puramente plastica. Nei limiti della plastica, l’uomo può creare una realtà nuova: una superrealtà. Nella luce del pieno giorno del futuro egli la crea, in opposizione ma anche in relazione con la vita naturale». Piet Mondrian, L’arte realistica e l’arte superrealistica, in: Piet Mondrian, Tutti gli scritti, a cura di Harry Holtzman, Milano, Feltrinelli 1975, (Writings of Piet Mondrian, New York, The Viking Press) pp.253-63; 254-6.

67 Fornari, p.120.

68 La luna e il diavolo. Dalla demonologia classica al mito di Lilith nel Romanticismo francese, in La luna allo specchio, a cura di Nadia Minerva, Patron, Bologna 1990, pp.35-51.

69 Laura Bandiera, «Decline», «decay», «decadence»: Salomè di Oscar Wilde in: La luna allo specchio, pp. 87-101.

70 Salomè, dramma in un atto dall’omonimo poema di Oscar Wilde, versione ritmica italiana di Ottone Schanzer, Sonzogno, Milano 1986.

71 Lettere a Giulio Ricordi (n.538, pp.363-4) ed a Fosca Leonardi (n.539, p.364), in: Gara, entrambe del 2 febbraio 1908.

72 A Giulio Ricordi, 14 novembre 1906, in: Gara, n.492, pp.331-2.

73 In una lettera del 15 gennaio 1922 all’amico Guido Vandini, (Puccini: 276 lettere inedite, a cura di Giuseppe Pintorno, Nuove Edizioni, Milano 1974) Puccini scrive: «Carissimo, purtroppo è legge di natura andarsene, legge crudele ma più crudele quando una persona cara ci abbandona per sempre! Ti compiango, povero amico, e fatti coraggio piegando il capo al comando dell’inesorabile destino». Questa inclinazione al piegare rassegnatamente il capo non è propriamente in sintonia con l’ agonistico tono di sfida espresso da Leopardi nella Ginestra: «E piegherai | Sotto il fascio mortal non renitente | Il tuo capo innocente: | Ma non piegato insino allora indarno | Codardamente supplicando innanzi | al futuro oppressor».

74 Gianandrea Gavazzeni, Turandot, organismo senza pace, in: Quaderni Pucciniani 1985, a cura dell’Istituto di Studi Pucciniani, Matteoni, Lucca 1986, pp.33-42.

75 Vedi nota 64.

76 A Gabriele D’Annunzio, 16 agosto 1906, in: Gara, n.485, p.328.

77 A Carlo Clausetti, 11 novembre 1918, in: Gara, n.736, p.470.

78 A titolo esemplificativo, riportiamo un passo da una lettera ad Elvira rivelativa del carattere tormentato di Puccini, che non poteva poi non essere riflesso nei personaggi delle sue opere: «What a life is mine! Everywhere I am unhappy and I suffer, suffer so much! I wish that my life were finished. I shall be happy when I shall have gone forever to eternal repose and eternal peace. I have such a desire for peace and for equilibrium. Death is a great friend. I have no further interest in myself. Wherever I turn I see ugliness, evil actions…» (Marek, p.247.).

79 Carl Dahlhaus, La concezione wagneriana del dramma musicale, Discanto, Fiesole 1983, p.19.

80 Carner, pp.114 e 391.

81 Dahlhaus, p.11.

82 Ivi, p.15.

83 Idem.

84 Idem

85 Ivi, p.16.

86 A differenza di quanto affermato da Carner, (Carner, p.13) troppo condizionato dalla sua impostazione psicoanalitica.