La lunga parabola dell’Edgar di Giacomo Puccini

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La lunga parabola dell’Edgar di Giacomo Puccini

La lunga parabola dell’Edgar di Giacomo Puccini

Articolo di Michele Bianchi

Michele Bianchi, Da Musset a Fontana, passando per Carmen, in: Edgar, Programma di Sala Teatro Comunale di Bologna, Edizioni Pendragon, Bologna 2010, pp.58-68.

1) La Carmen di Bizet

Neanche due mesi dopo la permanenza in Milano per seguire il Corso di Composizione al Conservatorio, Puccini sembra folgorato dalla Carmen di Georges Bizet rappresentata al Teatro dal Verme agli inizi del dicembre 1880. Così scrive alla sorella Ramelde: «Ieri sono stato a sentire la Carmen bellissima opera». Alla sorella Ramelde, 9 dicembre 1880, in: Puccini com’era, a cura di Arnaldo Marchetti, Curci, Milano 1973, n.2, pp.16-21: 19. Curiosità: Bizet era il nome, sicuramente suggerito da Giacomo, dato al cane da caccia di Ramelde e di suo marito Raffaello (Al cognato Raffaello Franceschini, 9 marzo 1887, in: Marchetti, n.114, pp.121-2).

Ventisette anni dopo Puccini ribadisce con ancora maggior enfasi la stima nutrita per Carmen: molto ci sarebbe da scrivere per discutere le ragioni che hanno affievolito il pensiero mio per la Conchita fino ad abbandonarla. Non fu la paura (via questa parola) delle «pruderies» dei pubblici anglosassoni d’Europa e d’America; non fu l’esempio di Salomè a New York. Le mie sono ragioni d’indole pratica e teatrale. Se caso mai ci fosse stato alcunché (non voglio chiamar Paura) che mi avesse preoccupato, era il pensiero di Carmen, come colori e bagliori musicali. Unico e solo punto dove a ragione qualunque maestro deve aggrottare le ciglia!». A Giulio Ricordi, 11 aprile 1907, in: Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Ricordi, Milano 1958, n.504, pp.343-44. Mosco Carner nota: «Caratteristico è anche l’uso ch’egli fa della reminiscenza nella conclusione dell’opera, in cui cita un tema collegato a una situazione precedente. Ciò si verifica nel modo più squisito nella Manon Lescaut con il minuetto preso dal II atto, mentre nella Tosca la citazione del lamento di Cavaradossi non ha nessuna attinenza particolare con il suicidio della protagonista. E Puccini si lascia tentare ad affidare il tema alla piena orchestra – un espediente dell’opera verista adoperato per la prima volta, sembra, da Bizet nel finale ultimo della Carmen». Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica., traduzione di Luisa Pavolini, (edizione originale Puccini. A Critical Biography, Gerald Duckworth & Co., London 1958), Il Saggiatore, Milano 19814 (19611) p.398. Carner evidenzia altre analogie sistematiche fra il composto pucciniano e la tradizione francese. Esse riguardano l’inclinazione al mélo (pp.350-53); la sensibilità per l’erotico e l’atmosferico, che gli permette di discutere il soprannome di ‘Massenet italiano’ dato a Puccini (pp.367-71); il ‘lamento’ (p.403); il ‘ballabile’ (p.404); l’armonia (p.405) e la trama strumentale (pp.407-8).

La Carmen debuttò in modo disastroso all’Opéra-Comique di Parigi il 3 marzo 1875, ma cominciò la sua irrefrenabile ascesa grazie al successo di pubblico ottenuto a Vienna nell’ottobre dello stesso anno, supportato dall’entusiasmo di Brahms, Wagner e Cajkovskij. L’eco di questo successo crebbe progressivamente: si rilevò non solo l’amoralità della trama, ma che la morte violenta di Carmen per mano di Escamillo non ha ‘nobili giustificazioni’ sociali, politiche o religiose. E’ una morte dovuta solamente a base pulsioni animal-sessuali. Recensendo una rappresentazione di Carmen a Londra, la «Gazzetta Musicale di Milano» (XXXIV, 18, 4 maggio 1879, p.165.) nota come in essa vi sia «passione sì, ma rozza e brutale, non preceduta né seguita da alcuno di quei nobili ed elevati sentimenti che giustificano una vendetta e che rendono interessante l’esecutore e la vittima. […] E’ probabile che qui operi ancora l’influsso , di cui in buona misura si fece interprete Verdi, di una tendenza all’agire ‘impegnato’ della trama, magari sotto il profilo degli ideali risorgimentali o comunque con personaggi animati da ‘nobili’ cause: il clima ‘basso’ e l’inutile (perché non giustificato) ‘sacrificio’ dell’eroina sono così parsi al recensore gratuiti ed esteticamente sgradevoli». Sergio Viglino, La fortuna italiana della Carmen di Bizet (1879-1900), EDT / De Sono, Torino 2003,  p.49.

La singolarità di Carmen sconcertò dunque la critica ma esaltò Amintore Galli, «uno dei primi a percepire la singolarità dell’opera, omettendo volontariamente di ricercare appartenenze specifiche della Carmen a questo o a quell’altro genere» Viglino p.50. e «vero iniziatore della critica sull’opera di Bizet». Viglino p.85,

2) Amintore Galli, insegnante di Giacomo

Amintore Galli ha scritto almeno tre articoli fondamentali negli anni in cui Puccini è studente a Milano. Viglino: Carmen. Dramma lirico in quattro atti di H. Meilhac e L. Halévy. Musica di Giorgio Bizet, «Il Teatro Illustrato», 16 dicembre 1880, pp.3-7. Del melodramma attraverso la storia e dell’opera verista del Bizet, «Il Teatro Illustrato», IV, 39, marzo 1884, pp.34-6. e Giorgio Bizet «La musica popolare», III, 12, 15 dicembre 1884, pp.177-8.

Galli colloca dunque per la prima volta un’opera, Carmen appunto, in una nuova categoria operistica: «il verismo del Bizet». Viglino p.54. In realtà Galli intende riferirsi «al vero psicologico che è di tutti i luoghi, di tutti i popoli e di tutti i tempi» ed allo «scolpire caratteri nuovi e passioni profonde, e soprattutto nel depurare il realismo da ciò che ha di troppo prosaico e di inestetico, e nel sublimare l’accento dell’anima agitata, i fenomeni intimi del nostro essere con una ispirazione che scende dagli eccelsi del bello». Del melodramma attraverso la storia e dell’opera verista del Bizet, «Il Teatro Illustrato», IV, 39, marzo 1884, pp.34-6, in: Viglino p.112-3. Il realismo di Zola ed il verismo verghiano sono dunque altra cosa dal ‘verismo’ chiamato in causa dal Galli. Questo sguardo aperto sulla realtà senza soverchi pregiudizi socio-culturali, registra dunque in Carmen un’opera dai caratteri tanto singolari, che avranno molto seguito in Italia, almeno da Cavalleria rusticana in poi.

Musicista, critico musicale del quotidiano «Il Secolo» e direttore artistico della Casa musicale Sonzogno che aveva nella rivista «Il Teatro Illustrato» il suo organo promozionale, Amintore Galli (1845-1919), insegnò anche Contrappunto ed Estetica Musicale al Conservatorio di Milano dal 1878 al 1903. Il suo sapere confluì nell’enciclopedica Estetica della musica, ossia del Bello nella Musica sacra, Teatrale e da Concerto in ordine alla sua storia, Bocca, Torino 1900. Galli fu dunque insegnante di Giacomo Puccini nelle materie umanistiche.

Se è già stata sfatata «l’immagine di un ragazzo indomabile e quasi insofferente nei confronti della scuola», almeno dopo i tredici anni, Vedi: Giulio Battelli, Giacomo Puccini all’Istituto Musicale «G. Pacini», in: Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, cit., pp.3-21. si rileva poi che la votazione conseguita alla fine del primo anno di studio al Conservatorio di Milano in Storia e filosofia della musica (26,80) è superiore anche al voto in Composizione (26,72). Natale Gallini, Gli anni giovanili di Giacomo Puccini, in: «L’approdo musicale», II/6, 1959, pp.28-52.  Puccini poneva così le basi alla sua peculiare ed inossidabile poetica. Michele Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. Sull’arte e nell’arte di un drammaturgo, ETS, Pisa 2001. Rimangono tre quadernetti di appunti che testimoniano la frequenza di Giacomo alle lezioni del Galli. Biblioteca dell’Istituto Musicale Boccherini di Lucca, collocazione N IV 5 a-c. In particolare, quello intitolato Letteratura poetica 1882 e drammatica dimostra come le lezioni del Galli affrontassero problematiche ‘filosofiche’ che potevano anche suscitare la noia dell’allievo (rilevabile talvolta in modo incontrovertibile) ma lo rendevano intellettualmente meno sprovveduto. Anche in sede teorica Puccini ha avuto un insegnante del livello di Bazzini e Ponchielli, che trasmise un importante bagaglio conoscitivo di cui il compositore fece tesoro.

Galli offre fra l’altro a Puccini una teorizzazione ‘dell’amore’ e ‘dell’ideale’ che l’allievo non disattese. Nell’Estetica della Musica si pone «l’Amore come punto d’origine dei nostri fatti interni […]. E’ all’Amore -il desiderio inesplebile [sic (?)] del Bene, l’arcana possanza che tutto governa- che l’uomo deve l’intuito dell’ideale, l’incessante aspirare che egli fa ad esso e s’egli giunge a creare le grandi opere d’arte. […] Dal canto suo, l’ideale ha proprie leggi, e pur queste sono da noi ricordate nei principi del Bello e dell’alta finalità dell’Arte». Galli, p.VI. L’Amore come fulcro dell’agire umano è stato sviscerato in tutte le sue sfumature da Puccini, che sembra aver preso alla lettera gli insegnamenti di un suo poco ricordato professore.

Sintesi di lucida cinica razionalità ed erompente afflato sentimentale, l’arte pucciniana sembra ancorarsi saldamente ai convincimenti del suo professore di Conservatorio. Pragmaticamente, il Galli tende infatti a non perdere di vista «l’accordo fra il sentimento e l’intelligenza, i due organi della funzionalità estetica». Galli, Estetica della musica, p.VII. «[…] La musica non produrrebbe in noi le sue arcane impressioni […] se in noi non esistesse, non altrimenti che per le altre arti, un ricettacolo dove la sensazione si svolge dapprima in percezione e poscia si trasforma in commozione sentimentale, in affetti, richiamando costantemente fatti puramente intellettuali, ed elevando la nostra anima agli ideali d’ogni perfezione, e cioè: al vero, al bello, al bene, in virtù delle nostre facoltà sintetiche e del principio d’associazione, pel quale si ha l’unità dell’essere, dell’anima e dell’intelligenza. Galli, pp.3-4. Questo binomio sarà decisamente allentato dall’ormai imminente estetica del Croce, che esalterà la funzione del primo a scapito della seconda, confluente nell’incessante circolarità dello spirito.

Che non può non aver accresciuto, in un allievo già dimostratosi estremamente ricettivo, il fascino per l’opera di Bizet, e dunque entusiasmo e desiderio di competere anche e soprattutto con ‘i grandi’ .

3) La coupe et les levres di Alfred De Musset

Ne Il caso Wagner del 1888 Friedrich Nietzsche attacca virulentemente l’arte «malata» del suo ex idolo e magnifica la Carmen di Bizet:

Questa musica […] mi sembra perfetta. Si avvicina leggera, morbida, con cortesia. E’ amabile, non fa sudare.  «Il bene è leggero, tutto ciò che è divino corre con piedi delicati»: principio primo della mia estetica. Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare – ha la raffinatezza di una razza, non quella di un individuo. E’ ricca. E’ precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla ‘melodia infinita’. […] Nessun sentimentalismo tipo Senta! Sibbene l’amore come fatum, come fatalità, cinico, innocente, crudele – e appunto in ciò natura! L’amore che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è l’odio mortale dei sessi! Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner. Lettera da Torino del maggio 1888 (Der Fall Wagner, traduzione in italiano di Ferruccio Masini), in: Friedrich Nietzsche, Scritti su Wagner, Adelhi, Mlano 1979 (V ed. 1988), pp. 165-207; 165, 167.

Ancora nel 1896 la «Gazzetta Musicale di Milano» promuove un’inchiesta sulla Carmen firmata da critici illustri come Alfredo Untersteiner, Anton Giulio Corrieri, Valeriano Valeriani, Arnaldo Bonaventura, Carmelo Lo Re, Carlo Arner, e, appunto, Amintore Galli. Questa è integralmente riproposta in: Viglino, pp.119-146. Tale inchiesta dimostra che anche nell’Italia musicale, e nell’ambiente milanese in particolare, Carmen rappresentava ancora, dopo oltre vent’anni dalla ‘prima’, un’opera paradigmatica. E al cui confronto Puccini ambiva e comunque non intese sottrarsi.

Il clima culturale stimolava dunque l’innato agonismo pucciniano, che si manifesterà palesemente di lì a poco con Manon Lescaut, sfidante e vincitrice sulla Manon di Massenet. Edgar fu favorito infatti dalla

piega macabra della tarda Scapigliatura (di Praga e Camerana) che aveva nel librettista Ferdinando Fontana uno dei più convinti ancorché mediocri esponenti. […] Evocato il demonio, se ne trovava poi la versione femminile nella donna fatale, desunta non dalle tante maghe della più aulica letteratura o dalle dame insaziate che avevano conquistato elisabettiani o romantici, ma dalla violenza primitiva del personaggio di Mérimée, quella Carmen che annuisce convinta quando Don Josè le dice: «Tu es un diable».[…] Una carta da visita ineccepibile della donna fatale, per chi non avesse capito come mai poco prima Edgar, reduce da «pastorali amor» nel duetto con Fidelia e schernito da Tigrana che canta l’aria di seduzione sulla melodia preludiata dall’organo nella vicina chiesa, l’apostrofasse tosto con un «Demonio, taci!» in perfetta analogia, dunque, con Carmen. Sergio Martinotti, I travagliati Avant-Propos di Puccini, in: Il melodramma italiano dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1977, pp.451-509; pp.471-2.

Il soggetto di Edgar rielabora il poème dramatique in 5 atti in versi ma non a destinazione scenica La coupe et les lèvres (La coppa e le labbra – 1832) di Alfred de Musset (1810-57), inserito in un volume dal titolo Un spectacle dans un fauteuil (Uno spettacolo in poltrona, o, anche, Teatro a domicilio). Alfred De Musset, La coppa e le labbra, traduzione italiana di Guido Barlozzini, in: Teatro, a cura di Maria Ortiz, Sansoni, Firenze 1955, pp.49-130. In questo volume si trova anche: Â quoi rêvent le jeunes filles (Quel che sognan le fanciulle). Il titolo è desunto da un «antico proverbio» che recita: «Entre la coupe et les lèvres il y a place pour un malheur», ossia: «Fra la coppa e le labbra c’è ancora spazio per una sciagura». De Musset, pp.49-130: p.49. Il significato del proverbio non è chiarissimo, ma l’attimo di sensualità prefigurato ben si attaglia allo stile allusivamente lambiccato del poema di De Musset. Sembra volerlo esplicitare Fontana, che nella prefazione a Edgar scrive: «Guai se la coppa, che una baccante | trista ne porge, vuotar vogliono… | ché al cor la nausea – dopo un istante | salir sentiamo!».

Nella fumosa dedica iniziale ad Alfred Tattet («Non so mica troppo bene, il fine | di tutta questa cicalata») si legge: «Voi mi potrete chiedere se amo | la saggezza. Sì. Nutro molto amore | anche verso il tabacco da fumare, | però. Stimo il bordò, segnatamente | quando è in età provetta; ed amo tutti | i vini schietti, perché fanno amare». Alfred De Musset, La coppa e le labbra, traduzione italiana di Guido Barlozzini, in: Teatro, a cura di Maria Ortiz, Sansoni, Firenze 1955, pp.49-130, p.60. Una dichiarazione, se non proprio da poeta maledetto, da scapigliatello.

Il suo innato lirismo è intercalato frequentemente da scatti d’ironia e da acidi sarcasmi anche a sfondo autobiografico, sempre ovattati in una sensualità raffinata. Come i suoi personaggi incline all’autodistruzione, De Musset morì malato e alcolizzato, ponendosi così all’attenzione del clima scapigliato, molto sensibile agli slittamenti fra arte e vita, e dunque a quella di Ferdinando Fontana.

La coupe et les levres si apre con una tirata libertaria: «Amare, bere, andare a caccia: è questa | la vita del Tirolo, di quel popolo | eroico e fiero, avvezzo alle montagne | come l’aquila, e come l’aria libero!». La conseguenza è un fatidico brindisi, dove Edgar maledice il suo passato:

«Un brindisi! Io, lo porgo: ecco: Sciagura | a chi novellamente nasce! Sia | maledetto il lavoro! Maledetta | la speranza! Sciagura a quella zolla | ove germoglia il seme, ove si spande | il sudor di due braccia scarne! I vincoli | del sangue e della vita, la famiglia, | la società, sia tutto maledetto». De Musset, p.76.

Esso narra del cacciatore tirolese ventenne Charles Frank e delle sue smanie che lo portano a lasciare drammaticamente il suo villaggio e l’ingenua Deidamia (15 anni). Dopo un diverbio con i suoi compaesani, Frank dà fuoco alla sua capanna ed inizia il peregrinare. Uccide orribilmente un certo Stranio e prende subito con sé la diciottenne Belcolore, dai facilissimi costumi e cui sarà poi rinfacciato l’assenza di ogni minima compassione per il compagno. Vive con lei otto giorni di perdizione ma coglie poi l’occasione per arruolarsi nell’esercito. Alla ricerca dell’amante,  Belcolore sarà definita «diavolo incarnato» dal luogotenente dell’esercito nelle cui fila si è distinto Frank. Questi rincarerà la dose, definendola «sirena e prostituta, ecco il modello | delle fogne, la macchina inventata | per crivellare l’uomo e berne il sangue, | la grave mola dell’abbrutimento». De Musset, p.109. Frank dunque si ravvede, torna da colei che gli lanciò un «mazzetto di rose canine», ma il «pugnale italiano» di Belcolore spezza la vita di Deidamia a pochi momenti dal matrimonio.

4) Edgar di Ferdinando Fontana

Non è solo l’ambizione di offrire un contraltare a Carmen che facilita la scelta di La coupe et les levres da parte di Ferdinando Fontana. Essa ha motivazioni più profonde, che rimandano alla poetica espressa aggressivamente nel suo In teatro, Ferdinando Fontana, In teatro (con due lettere di G.[iuseppe] C.[esare]Molineri), Casa Editrice A. Sommaruga, Roma 1884. che riporta la polemica con Giuseppe Cesare Molineri. Nella Sfuriata iniziale si legge: «[…] Il teatro è in decadenza. […] Il libro invece trionfa; e non solo il libro in genere, ma il libro specialmente che fa pensare». Ivi, p.27. Fontana anela «l’arte pura», ed il successo dei ‘concerti popolari’ fondati sulla musica strumentale sono lì a dimostrargli i primi sintomi dell’auspicata rivoluzione artistica operata dalle masse. Ferdinando Fontana, In teatro (con due lettere di G.C.Molineri), Casa Editrice A. Sommaruga, Roma 1884, p.29-30. Ma vedi anche p.109. E ribadisce che «il dramma vero sarà quindi il libro e non il Teatro». Ivi, p.86. In riferimento all’opera, Fontana profetizza così:

Il melodramma tende a trasformarsi in poema sinfonico scenico, tende a diventare cioè uno spettacolo, teatrale sì, ma nel quale la teatralità non dovrà avere il sopravvento sull’arte, bensì questa su quella; lo spettacolo musicale, insomma, tende a diventare sinfonico per eccellenza, cioè a sagomare sulla forma migliore dell’arte musicale, la sinfonia, il resto dello spettacolo. Questo spettacolo potrà essere adunque di due specie: lo spettacolo sinfonico fantastico e lo spettacolo sinfonico scenico. […] Esso [il primo] non ricorrerà mai all’apparenza delle decorazioni sceniche, all’azione plastica, all’arte insomma cosiddetta rappresentativa. Ivi, pp. 110-11.

In chiusura, Fontana offrirà tre esempi di Poemi sinfonici: uno spettacolo sinfonico fantastico e due spettacoli sinfonici scenici. Il loro sfondo evocativo e la suggestione a fini musicali sembra così avere nel Teatro a domicilio di De Musset il modello cui conformarsi. Ma Fontana tradisce sia lo spirito di La coupe et les levres sia i suoi propri intendimenti, offrendoci con Edgar un dramma terrigno, truculento e tutt’altro che allusivo per stimolare i voli musicali da lui tanto sognati.

Nell’opera ci si sposta dal Tirolo di fantasia alle Fiandre del 1302: la dolce Fidelia ama Edgar (il Frank di Musset), attratto irresistibilmente dalla cortigiana Tigrana, a sua volta amata da Frank, fratello di Fidelia (che, come suo padre Gualtiero, non compare nel poema di Musset). Un giorno Tigrana intona una canzone sconveniente sul sagrato della chiesa; i contadini la scacciano ma Edgar la difende. Dà alle fiamme la casa paterna e affronta in duello Frank, che aveva ostacolato la fuga dei due. Nel secondo atto Edgar ha compreso l’errore: chiede perdono a Frank e si arruola nell’esercito da lui capeggiato per combattere i francesi. Nell’atto terzo Frank pronuncia l’elogio funebre per Edgar, ma un frate incappucciato si scaglia contro la memoria del defunto. Fidelia la difende strenuamente, mentre, ‘comprata’ dalle offerte di Frank e del frate, Tigrana accusa Edgar di tradimento. Inferociti, soldati e contadini si gettano sull’armatura che però risulta vuota. Il frate non era altri che Edgar; con tale messinscena aveva inteso mettere alla prova le due donne. Cacciata dal villaggio, Tigrana si vendica pugnalando Fidelia, pianta disperatamente da Edgar.

E’ dunque una trama all’insegna di stantii intenti moraleggianti («Guai se alla luce-d’amor serena, | Che assurger l’anime – può a voli immensi, | Noi preferiamo – la fiamma oscena | che incendia i sensi!»), che saranno abbandonati già a partire da Manon Lescaut. Andrea Lanza precisa la capacità attrattiva di Carmen nei suoi aspetti macroscopici, che in Edgar aggirano però la complessità psicologica della gitana di Bizet.

Come Carmen, anche Tigrana è una straniera dal fascino esotico: è una ‘morisca’, aaccolta da piccola in casa di Gualtiero, e già alla prima apparizione canta una canzone di scena, accompagnandosi col liuto, provocatoria e insolente. Altri aspetti dell’arrangiamento librettistico mettono in evidenza convergenze con la Carmen. Che dovettero creare qualche imbarazzo in Puccini. Il rapporto fra Tigrana e la mite Fidelia, innamorata dello stesso uomo, fu probabilmente introdotto sul modello della coppia Carmen / Micaela, così come il personaggio di Frank, innamorato non corrisposto, è un evidente controfigura di Escamillo (anch’esso aggiunto rispetto al testo di Mérimée). Al contrario, in Edgar il triangolo affettivo che lega Fidelia / Edgar / Tigrana è già definito dall’inizio, e la decisione di Edgar di partire con Tigrana ha tutto l’aspetto di una fuga sentimentale. La storia assume così i tratti di un classico intrigo d’amore e gelosia, analoga nelle sue geometrie al primo atto della Carmen. Andrea Lanza, «Edgar». Traiettoria di un capolavoro mancato da Musset a Puccini, in: Edgar, Teatro Regio Torino, Stagione d’Opera 2007-2008, Teatro Regio Torino 2008, pp.8-25; 14. Lanza continua in verità: «Tuttavia le somiglianze con il capolavoro di Bizet si esauriscono qui. Seducente, beffarda, amorale, Tigrana è lontanissima, nonostante l’analogia apparente, dal personaggio di Carmen: per connotati psicologici e significato simbolico. Anch’essa incarna la sovversione delle regole e della morale corrente, ma nelle vesti della donna fatale, dell’avida croqueuse d’hommes che eccitava l’immaginazione scapigliata: insomma una cugina della Tigre reale e di Eva ritratte nei romanzi ‘continentali’ di Verga, la cui forza dirompente restava tutta all’interno di un concetto maschile della donna ancora ben lontano dal mettersi in discussione. Perciò manca nell’Edgar ogni intuizione di una morale femminile più profonda e inquietante, che invece è adombrata in Carmen, già sulla strada della Lulu nel Vaso di Pandora di Wedekind.  Del resto non è Tigrana a soccombere, ma Fidelia. E’ quindi Fidelia a sostenere – purtroppo in un finale che suona posticcio per l’inconsistenza del personaggio – quella funzione salvifica e liberatoria a profitto dell’eroe (Edgar: «Maledizione a voi!… Redento io son!») che tante volte la storia del melodramma ha assegnato al sacrificio dell’eroina, da Didone a Violetta, sino a Margherita del Faust di Gounod. E per trovare un libretto pucciniano la figura di una cortigiana travolta dall’ordine sociale che ha osato sfidare occorrerà attendere l’opera successiva, Manon Lescaut, la cui stesura letteraria sarà affidata non più a Fontana ma a Giocosa». Lanza, p.15. Considerazioni interessantissime, anche se ad oggi non è per niente accertato l’intervento di Giacosa in Manon Lescaut.

Ma queste palesi contraddizioni fra aspirazioni idealizzanti e dramma truculento sono una potente spia del clima in cui Puccini visse i suoi esordi. e una prova della sua prorompente personalità, che seppe lodevolmente scrollarsi di dosso i fumi scapigliati e le incertezze del momento per ricercare la sua personalissima strada.

5) Ferdinando Fontana

Come quello de Le villi, il libretto fu congegnato da Ferdinando Fontana (1850-1919), giornalista, traduttore, poeta (suoi i testi di canzoni musicate fra gli altri da Francesco Paolo Tosti) e autore di un Antologia meneghina (1891-1915) fondamentale per conoscere l’origine e gli sviluppi della letteratura milanese. Fontana aveva già avuto esperienze come librettista: alle scene liriche medievali Aldo e Clarenza (1878) musicate da Nicolò Massa, seguì Odio, tratto da Sardou e destinato a Ponchielli, e Le tradite, prima stesura di ciò che diventerà Le villi. Iniziò anche una collaborazione con Luigi Illica nel teatro di prosa, che sfociò ne I Narbonnerie-Latour del 1883 ed Erik Harpad Tekeli, «nome ostrogoto non meno della trama» del 1884. Vedi: Sergio Martinotti, «Torna ai felici dì»: il librettista Fontana, «Quaderni pucciniani», a cura dell’Istituto di Studi Pucciniani, Milano 1992, pp.55-66: p.57. Fontana aveva dunque una discreta ‘visibilità’ quando, in casa di Antonio Ghislanzoni (il librettista di Aida) a Caprino Bergamasco, incontrò un Puccini che, pur votato al teatro, aveva offerto solo qualche buon saggio di quella musica sinfonica tanto apprezzata dal Fontana proprio in funzione teatrale.

Casa Ghislanzoni era una sorta di ritrovo per il ‘rampantismo’ artistico milanese, che contava anche esponenti scapigliati, fra i quali lo stesso Fontana:

La sua partecipazione alla Scapigliatura, un movimento che, com’è noto, coltivava interessi oltre che per l’arte e la musica, verso i problemi sociali e la politica, fu indubbiamente sensibilizzata da questa sua origine modesta e da siffatta faticata esperienza umana: cosicché la sua figura viene intesa come ‘anello di congiuntura’ tra il Romanticismo ormai decadente e precrepuscolare dei vari Boito, Praga, Dossi e Tarchetti e «le contestazioni della più giovane scuola che li stava incalzando […]». Fontana, […] tramite tra la Scapigliatura lombarda di Boito e Praga e quella piemontese (che annoverava Camerana, Giacosa e quel Molineri che aveva fondato nel 1876 la rivista «Serate italiane»), aveva frequentato fin dalla gioventù con Rovani quel luogo di ritrovo della bohème milanese che era la Senavra, […] ove si parlava di arte e di medicina […]».Martinotti, «Torna ai felici dì»: il librettista Fontana, p.55 e 61. Qui Martinotti cita: A. Cassi Ramelli, Libretti e librettisti, Milano 1975, p.227.

Fontana fu amico fraterno di Puccini: su «La Gazzetta Musicale di Milano» del 19 ottobre 1884 redasse quella che è la prima biografia pucciniana. Si occupò inoltre di Giacomo per i problemi conseguenti alla relazione con la già maritata Elvira e alla nascita, nel 1886, del loro unico figlio Antonio Ferdinando [!] Maria. Il secondo nome testimonia affetto e riconoscenza che si logorarono però velocemente.

Puccini venne in contatto diretto con il clima scapigliato tramite Fontana, e per comprendere l’influsso che questi può aver esercitato sul compositore, si legga quanto il poeta gli scrive in una lettera: «Sai se io amo l’amore. E’ la sola cosa buona quaggiù poiché per me è la sola fonte dell’arte». Il labile confine fra vita ed arte qui riproposto è il principio primo che governò tutta l’esistenza materiale ed artistica del primo Puccini.

Dopo il successo de Le villi Giulio Ricordi non ebbe evidentemente nessuna indecisione nel riaffidare a Fontana il compito di congegnare il libretto per il lavoro di Puccini: «Metta in eruzione intanto la di lei fantasia pel nuovo libretto da darsi al Puccini… Se insisto è perché bisogna battere il ferro quando è caldo… et frapper l’imagination du public». Parole di Giulio Ricordi riportate in una lettera di Ferdinando Fontana a Puccini, fine settembre 1884, in: Marchetti, n.88, p.95. Alla spasmodica ricerca dell’erede di Verdi, Ricordi sperava vivamente di averlo individuato nell’autore di quelle Villi che facevano presentire capolavori ancora da venire: «Che l’abbiam proppi trovàa il maester?», confidava infatti l’editore a Fontana. Fontana a Puccini, 2 novembre 1884, in: Marchetti, n.91, p.101.

Circa il nuovo libretto, egli così scrive al compositore:

Io ti ho già proposto, se te ne ricordi, un argomento per questa seconda opera: ora soggiungo: Ricordi scrivendomi tutte queste belle cose a tuo riguardo, mi domanda se io vorrei fare un libretto allo Zuelli, Con La fata del Nord Guglielmo Zuelli aveva vinto il Concorso Sonzogno, ‘battendo’ anche Le villi di Puccini. non avendo potuto lo Zuelli accordarsi con Ghislanzoni. Io scrissi a Ricordi che a te avevo già comunicato un argomento e che a te avrei comunicato per il primo tutti quelli che mi parevano buoni. Che quello comunicatoti non mi pareva eccellente. Che però se tu non ti decidevi per questo, io l’avrei dato a Zuelli. Va a vedere Giulio (al quale dissi che ti scrivevo) e t’intenderai con lui su tutto ciò. Se poi tu ti decidi per l’argomento presente (e io te lo consiglio con tutto il cuore) io ne troverò un altro per lo Zuelli. Ferdinando Fontana a Puccini, fine settembre 1884, in: Marchetti, n.88, p.95.

Pensando al Puccini fustigatore di librettisti almeno da Bohème in poi, fa effetto notare come fosse Fontana a disporre di Edgar: «E scrivimi subito nel caso occorressero modificazioni ecc». Lettere di Ferdinando Fontana a Giacomo Puccini: 1884-1919, «Quaderni Pucciniani», Istituto di Studi Pucciniani, Milano 1992, 28 settembe 1884, n.4, p.8. Giacomo non tradirà mai più una simile accondiscendenza, ma sarà lui stesso a chiedere, pretendere ed imporre ‘modificazioni’ che sempre occorreranno, per il disappunto, in particolare, del ben più titolato Giacosa.

Peraltro Giacomo non accetta sempre pedissequamente quanto offerto da Fontana, e inizia quel cammino che lo porterà ad essere a pieno titolo coautore dei libretti: Stimolato, Fontana si dimostra tanto disponibile da far sospettare della sua personalità letteraria: «Benissimo tutte le tue accorciature ecc. Tutte le modificazioni che credi necessarie saranno fatte», «Quaderni Pucciniani 1992», 21 settembre 1885, n.19, p.37. Ma che con Edgar il librettista sia uno, e ben identificato, lo testimonia anche questa ‘uscita’ di Fontana: «Ci sono dei momenti che mi metto in testa di abbandonare quel soggetto e senza dirti niente farne un altro e dartelo». «Quaderni Pucciniani 1992», 27 aprile 1885, n.10, p19-20. A breve sarà sempre e solo Puccini a vagliare la scelta del soggetto, a elaborarlo, rifarlo o abbandonarlo definitivamente per la disperazione dei «vassalli del doge».

6) ‘Le colpe’ di Ferdinando Fontana

Voce di Casa Ricordi la «Gazzetta Musicale di Milano» del 28 aprile 1889 prese atto del poco entusiasmo con cui Edgar era stato accolto alla Scala qualche giorno prima:

La critica milanese si scagliò con grande severità contro il libretto, e se fu più mite col musicista, riconoscendone l’ingegno, ne accolse però il lavoro in modo tale che, ove il Puccini non avesse fortissima fibra d’artista, potrebbe concludere col dire: cambiamo mestiere! […] Ferdinando Fontana ha idee speciali riguardo all’arte, diremo così, del librettista: alcune di queste idee le dividiamo, ma per molte altre ci troviamo agli antipodi […]. Ci volle un musicista poderoso, ispirato come il Puccini per rivestire di colore smagliante la truce tela fornitagli dal poeta: ma non è meno vero che le difficoltà stesse di questa situazione drammatica ispirarono al maestro una pagina potente di musica [Il funerale di Edgar]. «Gazzetta Musicale di Milano», XLIV/17, 28 aprile 1889, pp.271-2, in: Michele Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995, pp.52-3.

Queste impressioni ebbero un riscontro nei rapporti privati. L’editore non mostrò alcun tentennamento sia nel rincuorare Puccini, sia nell’esecrare e di fatto congedare l’estroso ma inefficiente librettista:

Ricordi, Puccini, che è in una fase critica e delicata della sua vita artistica. Dico ciò non per le stupidaggini espresse dai nostri grandi critici, ma perché adesso si deve aprire un varco, montarlo con coraggio e perseveranza, e piantar là la bandiera della vittoria. Io, che non sono uno scrittore, un artista o un compositore d’opera, avverto ancora la nobiltà di questo Edgar. In esso leggo a chiare lettere tutti i vostri talenti, tutte le speranze per il futuro. Ma per realizzare queste speranze è necessario seguire un motto: Excelsior! Ricordi a Puccini, fine aprile 1889, in: George R. Marek, Puccini, Cassell, London 1952,  76-77. Il testo della lettera tradotta da Marek in inglese è il seguente: «Remember, Puccini, that you are in one of the critical and difficult moments of your artistic life. I say this not because of the idiocies given forth by our famous music critics, but because now we must open a beach, scale it with courage and perseverance, and there plant a victorious flag. I, who am neither a writer nor an artist nor an opera composer, yet sense the worth of this Edgar. I read in it clearly all your gift, all the hopes for the future. But to realize these hopes it is necessary to follow one motto: Excelsior!».

Ad un Puccini che evidentemente scalpitava per modificare d’urgenza il lavoro e riproporlo di lì a pochi mesi, Ricordi consigliò invece la riflessione per non precipitare una seconda raffazzonata versione. Così scrive:

Cerchi di capire, caro Puccini, che non sono d’accordo con la sistematica demolizione del libretto di Edgar. Ci sono due atti efficaci; è già qualcosa. Ma contiene anche molte oscurità, molti difetti che derivano dalle teorie del Fontana, il quale vuole che ognuno pensi con la sua testa. Ciò che mi ha più sconcertato durante la lunga discussione di ieri è che egli non beneficierà, ne ora ne in futuro, dall’esperienza di questi giorni. Ammettiamo tutte le esagerazioni e le cattiverie che critici astiosi hanno espresso sul libretto; nondimeno c’è del vero in quanto detto e ne va preso atto. Marek, pp. 76-77. «Please understand, dear Puccini, that I am not in agreement with the systematic belittlers of the libretto of Edgar. There are two effective acts; that is something. But it also contains much obscurity, many fallacies which derive from the theories of Fontana, who assumes that everibody thinks with his head. What impressed me all the more during the long discourses yesterday is that he will never benefit, not now, not later, from the experience of these days. Let us admit all the exaggerations, all the malice that the cruel critics have expended on the libretto; nonetheless there is some truth in what they say and we must reckon with it».

Ancora dieci anni dopo, sembra che a Ricordi si riapra la ferita di quell’insuccesso. Prendendo spunto da un terzo atto di Tosca che criticava per la sua presunta frammentarietà, l’editore contesta:

Ma Iddio Santo e buonissimo!… Cos’è il vero centro luminoso di quest’atto?… Il duetto Tosca-Cavaradossi. Cosa ho trovato?… Un duetto frammentario, a piccole linee che impiccioliscono i personaggi; ho trovato uno de’ più bei squarci di poesia lirica, quello delle mani, sottolineato semplicemente da una melodia, pure frammentaria e modesta, e per colmo, un pezzo talis et qualis dell’Edgar!!… Stupendo se per la sua essenza viene cantato da una contadina tirolese!!… Ma fuori posto in bocca ad una Tosca, ad un Cavaradossi! […] Ma che?… La fantasia di lui, in un momento fra i più terribili del dramma, ha dovuto ricorrere ad un’altra opera?… Ricordi a Puccini, 10 ottobre 1899, in: Gara, n.208, pp.177-9: 177.

Considerato il solo responsabile dell’insuccesso di Edgar, Fontana accusò Puccini di esser «ben lontano dall’affermare qualche difesa per me, poiché naturalmente prima adorava l’argomento e poi addio!!! Bel Mondo!». Lettere di Ferdinando Fontana a Giacomo Puccini, agosto 1889, n.132, p,207. Nel 1916 ricevette da Giacomo l’ultimo ‘schiaffo’ alla sua carriera: «Sono in condizioni … tristissime […]. Quando leggesti quel mio libretto Jannalia, mi dicesti che sarebbe stato eccellente per lanciare un giovane maestro. […] Indicamene qualcuno, te ne prego». Lettere di Ferdinando Fontana a Giacomo Puccini: 1884-1919, 7 novembre 1916, n.146, pp.231-2. E’ doveroso comunque ricordare che Fontana fu il primo a suggerire a Puccini i soggetti di Manon Lescaut e Tosca.

Dopo tanto infierire, Martinotti riesce ad intravedere uno spiraglio per gratificare Fontana:

[…] Il ‘dopo Verdi’ era avvertito come il problema più serio, pur con tutte le improvvisazioni, velleità e squilibri che esso comportava. Ed ecco allora che proprio il tumultuoso Fontana, Nella seconda parte del suo libro intitolato La musica in teatro, ne indica perentoriamente ma lucidamente la possibile soluzione quando rileva che il crescente gusto popolare per la musica sinfonica «finirà … in epoca forse non lontana ad obbligare il vecchio melodramma a trasformarsi». Ed a trasformarsi non tanto in un ‘poema sinfonico scenico’ (come lui stesso aveva indegnamente tentato) ma in uno spettacolo in cui «la teatralità dovrà avere il sopravvento sull’arte». Inoltre il vecchio libretto scomparirà e allo spettatore verrà dato un ‘vero poema’. Certo, pare quasi che qui l’ombra di Wagner stia allungandosi in Italia: e proprio in quest’intuizione, in questa proposta radicale per risolvere il dibattuto rapporto musica-parola, sta l’intuizione più geniale del disordinato librettista milanese. Martinotti, «Torna ai felici dì»: il librettista Fontana, p. 65.

7) ‘Le colpe’ di Puccini

Se Edgar non è un’opera riuscita non è soltanto colpa del libretto, effettivamente astruso e frequentemente mal versificato (es: «Io vi chieggo pietà per quei ginocchi | Che voi dannate ai morsi del terren!»), ma anche per la qualità della musica, pure spesso eccellente.

Già Ricordi scaricò su Fontana tutte le colpe del sostanziale insuccesso, ma non risulta che né lui né Puccini si siano mai lamentati del libretto di Edgar durante la sua gestazione. ‘La colpa’ di Ricordi fu quella di credere nell’onnipotenza della musica nel vivificare l’organismo operistico, mentre solo in seguito sarà chiaro come per Puccini fosse fondamentale la costruzione di un solido impianto librettistico.

Ancora, dopo tutto, è la fantasia e la personalità del musicista che determinano ogni cosa. E’ il musicista che riveste il lavoro e che lo presenta al pubblico: senza di lui è niente. Cercate di capirmi, caro Puccini: io non sono d’accordo con la sistematica demolizione del libretto. Ricordi a Puccini, fine aprile 1889, in: George R. Marek, Puccini, Cassell, London 1952, 76-77: 76. «Yet, after all, it is the imagination and the personality of the musician which are everything. It is the musician who colours the work, who presents it to the public. Without him it is a zero. Please understand, dear Puccini, that I am not in agreement with the systematic belittlers of the libretto of Edgar».

Puccini non prese alcuna difesa dell’amico, e a distanza di tempo pose la pietra tombale su questo sfortunato lavoro.

L’Edgar […] non va, né potrà mai andare, perché è un organismo teatralmente manchevole. Il suo successo è stato effimero, e per quanto abbia coscienza di avere scritto delle pagine musicali che mi fanno onore, non basta: come opera non ci siamo! La base di un’opera è il soggetto la sua trattazione; il libretto dell’Edgar – con tutto il rispetto alla memoria dell’amico Fontana – è una cantonata che ho preso… La colpa è più mia che sua. Marotti Pagni, pp.157-8.

Dopo la rappresentazione di Buenos Aires (1905), Puccini scrisse: «E’ minestra riscaldata, l’ho sempre detto. Ci vuole un soggetto che palpiti e ci si creda, non le panzane». Marek, p.79. «It is a warmed-up soup. I have always said so. What is wanted is a subject which palpitates with life and is believable, not trash». «E Dio ti GuARdi da quest’opera» è invece una dedica di Puccini in uno spartito donato all’amica Sybil Seligman nel 1905. Vincent Seligman, Puccini among friends, Macmillan, London 1938, pp.19-20. «If I were not familiar with his hand-writing, I should be inclined to suspect that the humorous annotations to the score which he gave my mother had been written by one of his bitterest critics. The title itself has been defaced by additions into: ‘‘E Dio ti Gu A Rdi da quest’opera ’’ ‘‘And may God preserve you from this opera!’’.Of the end of the second act he declares: ‘‘This finale is the most horrible thing that has ever been written’’. In the third act, Edgar, […] dramatically lowers his cowl and cries: ‘‘Yes, for Edgar lives!’’ Puccini’s laconic annotation – Menzogna! (‘‘It’s a lie!’’) shows that he failed to share his hero’s belief in his immortality. Only two passages in the whole opera are marked ‘‘this is good’’; Fidelia’s Addio mio dolce amor and her lament beginning Nel villaggio d’Edgar; and as the drama moves forward to its unnecessarily bloody climax and the crowd are reduced to repeated and rather naïve exclamations of the word ‘‘Horror!’’ Puccini is content to add: ‘‘How right they are’’. And there can be little doubt that Puccini, too, was right».

Il duetto Tu voluttà di fuoco, l’aria di Frank Questo amor, vergogna mia, il Requiem che poi Toscanini scelse per i funerali di Puccini a Milano, le arie di Fidelia Addio, mio dolce amore e Nel villaggio d’Edgar) rivelano infatti un raffinatissimo musicista. Non c’è da stupirsi se, in trepida attesa per l’erede di Verdi e in pieno snobismo wagneriano, l’editore Giulio Ricordi decise di puntarci. «Puccini […] ha qualche cosa di più, […] forse la cosa più preziosa delle doti, quella alla ricerca della quale s’affannano e s’arrabattano tanti gêni incompresi [Catalani?], la cui impotenza si maschera sotto lo specioso nome dell’avvenire! Questa preziosa qualità, del nostro Puccini, è di avere ella propria testa (ou dans son ventre, come dicono i francesi) delle idee: e queste si hanno o non si hanno […] ne si acquistano studiando […] e sudando lungamente su quei geroglifici pieni di scienza e di veleno che sono le partiture Wagneriane. Si rammenti il Puccini che è italiano, […] e lo provi lasciando correre libera da ogni pastoia la sua ferace fantasia; ne avrà gloria, e sarà gloria italiana!». Girardi, p.37. Puccini lo accontenterà, dissimulando nella sua italianità non solo la tradizione tedesca ma anche quella francese.

Ma non è possibile tacere che, passando per Manon Lescaut, tra Edgar e Bohème c’è un abisso che non è spiegabile solo con una naturale maturazione. In questo breve lasso di tempo (calcolando dalle ‘prime’, sette anni) accade ‘qualcosa’ che principalmente una puntuale analisi stilistica (quanto c’è ancora da lavorare!!!) può evidenziare. Il suono cambia, e la melodia acquista una parossistica concentrazione assente nei pur raffinati disegni di Edgar: il ‘blocco’ dalle ascendenze ponchielliane e catalaniane si sbriciola negli ‘spezzatini’ di Bohème. Se il processo compositivo pucciniano si fosse fermato ai traguardi raggiunti con Edgar, e la sua poetica non si fosse evoluta organicamente, Puccini non sarebbe certo passato alla storia.

Francesco Cesari evidenzia come il ‘riciclaggio’ di spunti tratti da Edgar non è pedissequo ma creativo:

Già diversa appare la tecnica impiegata in Manon Lescaut: andando a rovistare negli angoli più riposti dello spartito di Edgar, Puccini enuclea cellule e frammenti musicali e li inserisce nel nuovo contesto in modo immancabilmente più naturale ed efficace. […] Un caso a parte è costituito da Tosca, opera che deve molto a Edgar. […] Mi limiterò pertanto […] al solo riciclaggio di Edgar da tempo noto ai musicologi, tra tutti il più ampio e il più vistoso: quello dell’Andante animato (Semiminima 69) del duetto del quarto atto («Ah, nei tuoi baci») nell’Andante amoroso (semiminima 56) del duetto del terzo atto di Tosca («Amaro sol per te m’era il morire»). Il brano di Tosca deriva in realtà dalla contaminazione tra l’Andante animato, comprese le due battute di Andantino che lo precedono, e un inciso associato al personaggio di Fidelia […] nell’aria O fior del giorno. […] Il raffronto delle linee vocali nelle prime ventiquattro battute (armonicamente quasi identiche) mostra un indiscutibile miglioramento. […] E’ entusiasmate constatare cosa avviene in Tosca delle due modeste battute dell’Andantino di Edgar. Francesco Cesari, Autoimprestito e riciclaggio in Puccini: il caso di Edgar, in: ATTI 1994, pp.425-52: pp.426; 433; 436.

In Edgar la melodia pucciniana manca ancora di sistematicità e della suadente memorabilità che la imporrà al mondo intero. L’intricata trama di Edgar porta necessariamente con sé l’uso del recitativo, stile musicale vicino al parlato usato per le parti narrative contrapposto dunque all’aria, dove alberga lo sfogo lirico. Perfino ‘l’ultimo Verdi’ si protese verso il recitativo: l’ininterrotto fluire del discorso musicale di Otello e Falstaff modifica i rapporti fra il recitativo / arioso ed il pezzo chiuso: quest’ultimo risulta compresso quantitativamente e qualitativamente, non essendo più il punto di arrivo del tragitto drammatico. «Puccini prese come punto di riferimento il canto di intonazione naturalista, cui era pervenuto Verdi nella trasformazione dell’opera a numeri in opera fondata sull’unità della scena,  mediante l’elaborazione delle forme vocalistiche tradizionali (Otello) e la loro completa rifusione (Falstaff) nella condotta prevalentemente imperniata sul recitativo e su brevissimi squarci lirici. Verdi era però arrivato alla massima scissione, rischiando in Falstaff di disperdere i valori del canto, inerenti all’opera italiana. Per Puccini si trattava di recuperarli, conservando al canto il predominio strutturale e, nello stesso tempo, preservandone l’articolazione flessibile instaurata da Verdi». Claudio Casini, Puccini, Giacomo, in: DEUMM, Le biografie, vol VI, UTET, Torino 1988, pp.149-56.

Seppur compensata dall’adozione di un reticolo di leitmotiven che organizzano la ‘melodia infinita’, in Wagner la prosa musicale dall’Anello del Nibelungo in avanti, predomina e dilata i tempi della fruizione. La comparsa di Puccini nel panorama musicale dell’epoca ha dunque il significato e l’effetto di una controriforma nei confronti di una tradizione che si è ormai affermata come progressista e che continuerà a riscuotere i consensi di tanta avanguardia.

Almeno dalle esigenze riformistiche gluckiane, si era sempre cercato di eliminare il «tagliente divario» fra recitativo ed aria piegando quest’ultima sul modello stilistico offerto dal primo. Per la prima volta nella storia operistica, Puccini tende e riesce invece a plasmare sistematicamente il recitativo sull’aria. Ai tempi di Bohème egli afferma: «Mi è costata un po’ di fatica […] per liricizzare un po’ tutti questi spezzatini. E ci sono riuscito: perché voglio che si canti, si melodizzi più che si può». A Giulio Ricordi, novembre 1895, in: GARA, n.146, pp.133-4.

Puccini era dunque perfettamente cosciente dell’operazione che stava mettendo in atto, assolutamente unica nel panorama operistico del dopo Orfeo monteverdiano. Questa smaccata originalità contribuisce a spiegare l’atteggiamento snob nei suoi confronti ed a comprendere che la strada da lui sentitamente e coraggiosamente indicata sarà senza uscita.

E’ comprensibile dunque che in Edgar un Puccini poco esperto fosse turbato tanto da non riuscire a liberare le potenzialità di quel melodizzare che in futuro dominerà tutta l’opera e che sarà il suo controcorrente meraviglioso tratto distintivo. L’adozione su vasta scala di un recitativo di maniera sembra cioè riverberarsi sull’aria, fiaccandone la memorabilità ed inibendone dunque il volo.

Nella scena 4 dell’atto I il recitativo campeggia indisturbato, proseguendo nella scena 5; stesso discorso vale per la scena 8 e 9. Qui lo splendido quintetto «D’un vecchio d’un padre la tremula voce» è incorniciato da un recitativo che, nella sua lunghezza, chiude poi l’atto. Oltre a perpetuare la sei-settecentesca ‘noia del recitativo’, la sua invasività va a collidere con un melodizzare fors’anche troppo prezioso per una simile base letteraria. Oltre a rendere omogeneo tutto il tessuto operistico, parzialmente già in Manon Lescaut ma certamente con Bohème, senza perdere in raffinatezza la melodia pucciniana verrà percepita meno ‘altezzosa’ e più ‘natural-popolare’.

L’assoluta unicità di questa operazione è messa in luce da un’ineccepibile osservazione di Eugenio Montale:

In una composizione di musica tradizionale noi moderni avvertiamo una certa divaricazione tra la melodia e il riempitivo, cioè lo sfruttamento del tema al fine di occupare un certo tempo e spazio sonoro, e il prepararne la riapparizione. Ridurre tutto alla melodia non era possibile perché la melodia non dice nulla se non è rara e intermittente: e cercare un più o meno felice compromesso tra i due elementi fu il grande compito della musica romantica. Di passo in passo si giunse all’abolizione della melodia (e particolarmente di quella di tipo romantico, ritenuta troppo passionale ed espressiva) e si fece musica soltanto col linguaggio di quel che noi, con voluta grossolanità, abbiamo chiamato «il riempitivo». E in questo furono d’accordo tutti: gli espressionisti e gli oggettivisti che negano le facoltà espressive della musica e vogliono ridurla a puro suono». Eugenio Montale, 10 luglio 1959, in: Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, parte seconda, Milano 1996, pp.178.

Non tutti furono d’accordo: Puccini si isolò da questo cenacolo e si distinse, prestando il fianco a strali pseudo-progressisti. Questo cambio di rotta e il felice approdo ad un teatro assolutamente unico e perennemente vincente sono opera titanica di un genio. Ma i tempi non erano ancora maturi, quando Edgar fu approntato. D’allra parte Giacomo aveva sempre ammesso la sua ‘veduta tarda’, A Giulio Ricordi, 13 luglio 1894, in: Gara, n.106, pp.102-3. lenta sì, ma inesorabile nel puntare all’assoluta eccellenza.

8) Ricostruzione del primo Edgar

Edgar è la seconda opera di Puccini dopo Le villi. Composto dal 1885 al 1887, fu oggetto di numerose varianti addirittura sino al dopo Butterfly: già nel 1892 ‘perse’ un atto (il quarto), ma la versione definitiva si avrà nel 1905 per Buenos Aires. La prima rappresentazione fu al Teatro alla Scala di Milano nel 1889.

Edgar andò in scena il 2 aprile 1899 nella originario versione in 4 atti, replicata con varianti…. Si giunse dunque alla versione in 3 atti che debutta a Buenos Aires, in occasione della trionfale tournée argentina.

Da una nota di Casa Ricordi riportata da Alberto Cantù, si evince che Puccini lavorò alla partitura di Edgar dall’aprile 1885 al marzo 1889. Alberto Cantù, L’universo di Puccini da Le villi a Turandot , Varese, Zecchini Editore 2008, p.24-5.

Il 28 gennaio 1892 fu rappresentata in Ferrara la nuova versione in tre atti, basata su uno spartito stampato nello stesso mese. Praticamente viene snellito l’atto II e tagliato l’intero atto IV, di cui rimane solo l’uccisione di Fidelia. Dopo essere andata in scena il 5 marzo a Torino, anche questa versione fu rivista per Madrid (19 marzo 1892) e riproposta in agosto a Brescia.

Edgar fu accantonato, ma nel 1901 Puccini ricevette una copia della partitura, con l’autografo dell’atto IV. Sembra che volesse reintrodurlo, per tagliare invece decisamente l’atto II. Ottenuti i diritti per musicare il dramma Madama Butterfly di David Belasco, Edgar viene messo nuovamente da parte.

Definitivamente affermata l’‘opera giapponese’, nel gennaio 1905 Puccini chiese a Ricordi l’atto II nella sua versione originale per sottoporlo a revisione: atto II e IV non vennero mai ritornati alla Casa Editrice e dunque più trovati, sino al 2007.

A seguito del rinnovato interesse per Edgar e per la sua primitiva versione da parte del Teatro Regio di Torino e di Casa Ricordi, Simonetta Puccini fece fare una ricognizione approfondita della partitura manoscritta di Edgar in suo possesso, apparentemente nella versione in tre Atti, giungendo alla eccezionale scoperta che, rilegati assieme ad un manoscritto non autografo, erano presenti i due Atti perduti della partitura originale. Grazie alla collaborazione e all’entusiasmo della Puccini è stato così possibile per Casa Ricordi ricostruire dopo quasi centoventi anni la straordinaria partitura di Edgar così come fu inizialmente concepita da Giacomo Puccini. Cantù, p.25.

Responsabile della Parsons Music Library presso l’università di Richmond (Virginia, Usa), Linda B. Fairtile ha curato la ricostruzione della versione originale di Edgar, con la supervisione di Gabriele Dotto e di Claudio Toscani. La Fairtile puntualizza però che la partitura originale non coincide esattamente con quanto il pubblico della Scala poté udire:

E’ ormai accertato che la partitura con firma autografa di Puccini non corrisponde alla prima assoluta dell’opera alla Scala dell’aprile 1889. Innanzitutto il ruolo di Tigrana, originariamente concepito per mezzosoprano, fu interpretato dal soprano Romilda Pantaloni, che sostituì all’ultimo minuto Giulia Novelli a causa di un’indisposizione di quest’ultima. Puccini dovette riscrivere la parte di Tigrana per adattarla alla voce della Pantaleoni, ma le correzioni non vennero trascritte nella partitura autografa, il cui ruolo di Tigrana resta affidato ad un mezzosoprano. Probabilmente le correzioni furono annotate nel manoscritto dal copista utilizzato dal direttore Franco Faccio nella prima esecuzione dell’opera. Tale partitura, ora perduta, potrebbe probabilmente documentare l’Edgar così come venne eseguito alla Scala nel 1889. Linda B. Fairtile, Ricostruzione dell’Edgar originale, in: Edgar, Teatro Regio Torino, Stagione d’Opera 2007-2008, Teatro Regio Torino 2008, pp.27-32; 27.

La parte di Tigrana scritta per soprano esiste, ma non in partitura, bensì nel primo spartito pubblicato da Ricordi. Non si può essere comunque sempre certi che essa sia quella cantata alla prima scaligera.

E necessaria un’estrema cautela nel tentativo di ricostruire la versione della Scala dalle fonti sopravvissute e ciò che ne risulta è solo una vicina approssimazione di quello che venne rappresentato. Seppure la partitura autografa costituisca una fonte indispensabile, non può essere l’unica, soprattutto a causa del cambiamento della parte vocale di Tigrana. La ricostruzione si basa dunque su una fonte successiva, lo spartito in quattro atti per canto e pianoforte pubblicato nelle ultime settimane del 1889. Questa riduzione fu redatta poco dopo le rappresentazioni alla Scala e, nonostante contenga numerosi tagli e revisioni successivi, assegna la parte di Tigrana al soprano. Per dare unità al lavoro di ripristino della partitura, la ricostruzione delle parti vocali è basata sulla riduzione per canto e piano del 1889 a cui vengono integrati i frammenti che compaiono solo nella partitura autografa. Fairtile, pp.27-9.

Di grande appoggio a questa ricostruzione è appunto lo spartito sopra ricordato, che per Schickling fu però pubblicato da Ricordi non nel 1889 ma nel gennaio 1890. Dieter Schickling, Giacomo Puccini. Catalogue of the works, Bärenreiter, Kassell 2003, p.172. Le notizie seguenti sono tratte dalle sue Note (pp.170.3). La Fairtle nota comunque che la partitura autografa è «un documento complesso che richiede un grande lavoro di interpretazione», sia per le «diverse pagine mancanti» sia per la «notazione spesso contraddittoria del fraseggio, delle dinamiche e dell’articolazione degli strumenti che suonano parti identiche, o simili». Fairtile, pp.29 e 31.

Edgar concluse la sua lunga e tormentata parabola con quella che sino ad oggi è stata la definitiva versione, in tre atti andata in scena l’8 luglio 1905 al Teatro Colon di Buenos Aires. Puccini fu ospite d’onore in Argentina (e Uruguay) per oltre un mese per una tournée veramente trionfale. Edgar non riuscì a spiccare il volo, ma il cognome Puccini era ormai assurto a gloria sempiterna, riscattando anche la tragedia del fratello Michele, emigrato in Argentina nel 1889 e morto poi tragicamente a Rio de Janeiro nel 1891. Vedi: Gustavo Gabriel Otero – Daniel Varacalli Costas, Puccini en la Argentina. Junio – Agosto de 1905, Instituto Italiano de Cultura de Buenos Aires, 2006. La traduzione in italiano è uscita nel 2009 a cura dell’Associazione Amici delle Case di Giacomo Puccini (traduzione di Horacio Ermesto La Guercio, Marcelo Paolo Spaccarotella e Simonetta Puccini, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 2009).