PUCCINI: QUESTO SCONOSCIUTO

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PUCCINI: QUESTO SCONOSCIUTO

PUCCINI: QUESTO SCONOSCIUTO

Tanta musicologia ha ampiamente rivalutato nella sua modernità compositiva il Puccini musicista.1 Questa operazione si rivela però un pericoloso boomerang, perché altri compositori coevi (es: Debussy, Stravinski, Ravel, per non dire Schoenberg) mostrano una scrittura musicale indubbiamente più radicale.2 E’ facile concludere dunque che Puccini sia perlopiù un artista ‘aggiornato’.3 Impadronirsi delle novità musicali è poi in odore di peccato, quando si verifica che ardite dissonanze, armonie non funzionali, bitonalità, sono ‘sprecate’ con la letteratura lacrimosa dei suoi libretti.4 Con Puccini, la montagna partorirebbe dunque un topolino.

Puntualmente, anche la musicologia apparentemente ben disposta verso Puccini è spesso poco convinta della sua grandezza. Socio fondatore e membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Puccini di Lucca, Dieter Schickling afferma con naturalezza:

L’opera di Puccini, per il suo livello, non si colloca certamente ai vertici della storia della musica, ma è interessante come riflesso musicale di una determinata situazione sociale, storica e umana all’inizio della modernità. L’opera di Puccini parla di noi con una musica che esprime una tensione quasi insopportabile. Chi trova oggi la musica di Puccini poco originale, deve ricordare che è stata composta molto tempo prima che venisse banalizzata senza rimedio. Quella tensione rende l’opera di Puccini degna di riflessione. Comporre faticosamente sull’orlo di un abisso dal quale ogni composizione appare assurda è un atteggiamento coraggioso – oppure sciocco.5

Definire ‘interessanti’ le opere pucciniane, e solo sul versante sociologico o della psicologia sociale, si direbbe riduttivo, se non offensivo. Le conseguenze di ragionamenti che non relazionano l’arte pucciniana alla più grande tradizione cui Giacomo riteneva a ragione di appartenere,6 sono disarmanti. Nelle Storie della musica anche recenti, Puccini figura da assoluto comprimario. Nel volume IV dell’Enciclopedia della musica edito da Einaudi nel 2004 è impressionante vedere lo spazio riservato a Verdi e la sufficienza con cui è trattato Puccini. Marco Beghelli nota che

tali effusioni melodiche, ridotte spesso a incisi di poche note, diventano in certo Puccini – ma non solo in lui – materiale grezzo da utilizzare nel corso di tutta la partitura, come una ‘divisa’ sonora che caratterizza la singola opera. Si tratta di una combinazione fra la tecnica italiana della reminiscenza (un tema ritorna testualmente nel corso dell’opera a rievocare situazioni passate che a quel tema erano state collegate) e la tecnica tipicamente wagneriana dei Leitmotive (elementi non solo melodici, ma anche ritmici e timbrici, associati concettualmente a qualche personaggio, a qualche evento o immagine affettiva, che vengono ripetutamente elaborati nel corso della partitura, divenendone il materiale costruttivo): non dunque lo sforzo inane d’impossessarsi di uno stile irripetibile quale fu quello di Wagner, indissolubilmente legato al suo creatore, come pur tentarono di fare uno Smareglia (La Falèna, 1897) o un Franchetti (Germania, 1902), ma l’ideazione di un nuovo sistema compositivo sempre e comunque fondato sulla melodia [Budden 1987]. Manon Lescaut è probabilmente l’opera dove l’esito suona più evidente, anche agli orecchi dell’ascoltatore inesperto: memorabile, fra le tante, la frase di sette note con cui la protagonista si presenta al giovane Des Grieux («Manon Lescaut mi chiamo») destinata a divenire un vero ‘tormentone’ melodico dell’opera, nella sua forma originale o in altre derivate, accompagnando le fasi successive del dramma, con un effetto unificante che va oltre la singola scena.7

Non esiste un ‘tormentone’ in Manon, primo successo del compositore lucchese (1893): questo è tipico della musica ‘leggerissima’.8 Comincia invece a mostrarsi invece l’abilità, tutta pucciniana, di variare cellule melodiche,9 raffinato procedimento dai risvolti anche drammaturgici,10 che non può ‘suonare così evidente’ a chicchessia. Ma è sintomatico che Marco Beghelli non riesca a far meglio di richiamarsi zitto zitto ad un luogo comune risalente nientemeno che all’offensivo libello dedicato da Fausto Torrefranca a Puccini nel 1912:

e giacché siamo in tema di pseudo-wagnerismo, possiamo vedere subito come sia incosciamente caricaturistico l’uso che il Puccini fa del motivo conduttore, non solo per mancanza di vigore melodico e di fantasia ritmica, ma anche per insensibilità rispetto alla musicabilità e, anzi, alla musicalità delle parole. Eccone un esempio nella Manon che ognuno può verificare a memoria, senza dover ricorrere allo spartito. Manon si presenta, al primo atto, con una melodietta sulle parole «Manon Lescaut mi chiamano». […] Anche concesso che quel tema sia significativo, mentre è monotono per sé stesso e nelle sue insulse riapparizioni a dirittura irritante, qual mai contenuto sentimentale e drammatico può avere da quelle parole «Manon Lescaut mi chiamano», che ritornano insistenti alla memoria dello spettatore? […] Per quattrocento pagine siamo costretti a risentire che «Manon Lescaut la chiamano». Vi pare arte, codesta?11

Eppure il cammino storico non si è fagocitato Puccini, forse l’autore più udito (anche nella pubblicità) e rappresentato dell’universo. Un secolo di esperimenti e di ideologie ‘progressiste’ invocanti costantemente il binomio ‘grande arte/arte per pochi’ non ha spazzato via le sue opere.12 I vari Bersezio si devono arrendere,13 oggi come ieri.14

Le ragioni di questo atteggiamento snob della critica sono dovute a un personaggio di successo ritenuto però poco credibile, innanzitutto a livello umano. L’immaginario collettivo si è pasciuto del suo ruolo di gaudente, (cacciatore di selvaggina e di donne, ed appassionato di biciclette, automobili, motoscafi) assolutamente non confutabile, ma troppo spesso esasperato, quando non usato per fini poco edificanti.15 Ma, oltre ad essere stato ingigantito e mai problematizzato, questo ruolo conferitogli ad honorem ha del tutto ottenebrato una personalità complessa, dai tratti addirittura enigmatici.16 Con inaudita leggerezza l’uomo Puccini è stato indagato con metodi da giornale scandalistico, glissando troppo rapidamente sulla sua cultura (da intendersi come assimilazione e trasformazione creativa delle conoscenze apprese, e non come pura erudizione), sulle sue inclinazioni ideologiche e politiche, sui suoi convincimenti religiosi e sulla sua attuale modernità. Più che un uomo, Puccini ne è stato considerato aprioristicamente una caricatura. Avvezzo a schermirsi, a dissimulare, a minimizzare e ad autocanzonarsi, Puccini stesso ha gettato ‘esche’ a iosa. Ad esse non si deve più abboccare.

E’ già stata sfatata da Giulio Battelli «l’immagine di un ragazzo indomabile e quasi insofferente nei confronti della scuola», almeno dopo i tredici anni.17 Si rileva poi che la votazione conseguita alla fine del primo anno di studio al Conservatorio di Milano in Storia e filosofia della musica (26,80) è superiore anche al voto in Composizione (26,72).18 Puccini avvertiva dunque il fascino di una cultura veicolatagli da Amintore Galli.19 Anche nelle materie umanistiche Puccini ha avuto un insegnante del livello di Bazzini e Ponchielli, che trasmise un importante bagaglio conoscitivo di cui il compositore fece tesoro. Galli offre fra l’altro a Puccini una teorizzazione ‘dell’amore’ e ‘dell’ideale’ che l’allievo non disattese.20 Sintesi di lucida cinica razionalità ed erompente afflato sentimentale, l’arte pucciniana sembra ancorarsi saldamente ai convincimenti del suo professore di Conservatorio.

I suoi atteggiamenti ‘guasconi’ sono ampiamente controbilanciati dall’essere stato un buon amico, serio e corretto nei rapporti umani, benefattore,21 ecologista ante litteram,22 stimato dai colleghi,23 anche quelli lontani dal suo mondo espressivo,24 ed un padre affettuoso, per quanto distratto dalla ‘chiamata’ dell’Arte. Essendo di bella e fascinosa figura, ricco e famoso, fu inevitabilmente molto esposto alle attenzioni femminili, ma visse la mondanità senz’altro al di sotto delle sue enormi possibilità. Mai il lusso improntò la sua esistenza, e le sue abitazioni confermano la modestia del personaggio. Non ostentò il suo ‘potere’, difese la riservatezza della sua privacy, riconobbe ed accettò la sacralità del vincolo matrimoniale. E l’ultimo suo pensiero, scritto, fu per la moglie Elvira.

La sua iconografia improntata a spavalderia ha come risvolto un personaggio tormentato sia dalla paura per le malattie sia dal terrore per l’allontanarsi della giovinezza e per l’incedere inesorabile della vecchiaia.25 Julian Budden afferma perentoriamente che «la politica non lo interessò».26 Varia documentazione conferma invece un deciso antisocialismo ed l’inclinazione ad un autoritarismo di destra.27 Carner ha definito Puccini ‘ateo’,28 mentre Claudio Casini lo dichiara «agnostico dotato di una notevole dose di superficialità».29 Ma si evince poi che fu credente, certo tutt’altro che bigotto, e che morì in grazia di Dio.30 Non solo Puccini si è posto domande sull’esistenza, ma vi ha dato anche risposta. E’ stato insomma un uomo, non la sua ombra.

Come artista è da rilevare innanzitutto la presenza di una poetica pucciniana non espressa in forma sistematica e pubblica,31 ma esplicitabile dalle sue lettere e dai ‘suoi’ libretti. E’ testimoniata dunque l’indefessa riflessione di Puccini sul significato e sugli scopi dell’operare suo ed altrui.32 La poetica pucciniana risulta molto articolata e dai tratti non solo caratteristici ma addirittura monolitici.33 Essa esige una comunicazione fulminante fra l’emittente-compositore ed il ricevente-pubblico, in virtù di una sincera commozione dell’artista trasmessa al pubblico piegato al pianto da una potenza innanzitutto melodica.

E se è vero che «l’artista non può far arte senza una poetica, […] e quando fa arte la sua poetica agisce viva e operosa nella sua attività»,34 Puccini deve essere dichiarato non solo artista, ma grande artista. Quanto possa significare la solidità di una poetica è esemplificato dal ‘caso Alfredo Catalani’. Un autore che a diciotto anni congedava una Messa che sistematicamente rivela il grandissimo musicista si doveva imporre con ben altra autorevolezza.35 La ricerca neurologica sembra giunta alla conferma dell’esistenza di un ‘cervello musicale’. Domandarsi, come fa Isabelle Peretz, «la musica può forse essere considerata a tutti gli effetti come una facoltà a sé stante?»,36 ha una risposta positiva.37 Si potrebbe così giustificare il diverso destino dei due musicisti lucchesi concludendo che Catalani possedeva solo un ‘cervello musicale’, mentre Puccini lo aveva strettamente correlato a quello del ‘linguaggio’. L’assenza di una poetica catalaniana,38 e la presenza di una inossidabile poetica pucciniana spiegherebbero gli insuccessi dell’uno ed i trionfi dell’altro. E chissà che sia proprio la stretta correlazione di ‘cervello artistico’ e ‘cervello razional-poetico’, in artisti dunque sostenuti o meno dalle buone fondamenta di una poetica, a discriminare i ‘grandi’ dai ‘minori’.

Centrale nel pensiero e nell’opera di Giacomo Puccini è ‘la melodia’, da lui ritenuta anche il carattere fondamentale della musica dei ‘latini’.39 Questo parametro musicale era già riconosciuto un ‘difetto’ all’epoca di Puccini, forse per un abuso dissennato da parte della ‘romanticheria’. Già con l’ultimo Verdi la melodia ‘spiegata’ vira verso un declamato arioso che contagia il panorama europeo per evolvere sino allo Sprechgesang di Schoenberg. Puccini remava dunque controcorrente nell’agitato mare delle avanguardie del primo Novecento.40 Non bastasse la difesa della melodia da parte di Igor Stravinsky (non a caso Adorno lo considerò un conservatore ed un restauratore rispetto al progressivo Schoenberg),41 la più recente ed avanzata musicologia prende una drastica quanto inaspettata posizione. Affrontando il parametro ‘melodia’, il semiologo Jean-Jacques Nattiez,42 afferma:

Non vi è mai del melodico puro. E’ per questo motivo che fanno tanta fatica a costituirsi delle teorie autonome della melodia. Tutte le variabili della musica si sono date appuntamento nella melodia per darle corpo. Se vi sono poche teorie della melodia, è forse perché i musicologi sono stati colti da vertigine di fronte al fatto che la teoria melodica sembra dissolversi in una teoria di tutta la musica.43

Nattiez è senz’altro più categorico di Puccini: compendiandovi tutti i parametri (armonia, sonorità/timbro, ritmo-metrica, sviluppo formale), melodia e musica diventano praticamente sinonimi.44 Contro tanto atteggiarsi ‘moderni ed oltre’, il pensiero pucciniano risulterebbe addirittura profetico, avendo forse colto quegli universali creativi individuati anche dalla psicologia della Gestalt. Le melodie a ponte ascendente/discendente tipiche del linguaggio pucciniano sono infatti ritenute particolarmente memorizzabili e appaganti da un punto di vista percettivo.45

Ma il livello più profondo dove rifulge la grandezza di Giacomo Puccini è la sua drammaturgia musicale.46 Con la melodia egli ‘crea il dramma’, intendendo innanzitutto accrescere l’emotività latente della scena e sottolineando il singolo momento con tutti i ferri del mestiere a disposizione. Un esempio stupefacente di come Puccini esalti la situazione scenica è il «Tu, tu, piccolo Iddio!» in chiusura di Madama Butterfly, precisamente sulle parole «O a me, sceso dal trono». Nella prima versione le parole sono sottolineate pedissequamente da una discesa della melodia. Nella versione definitiva il salto di ottava del Fa diesis è ribadito da una funambolica salita per grado congiunto al La che arroventa all’inverosimile la tragicità della situazione. Con questa mossa Puccini dimostra fra l’altro: 1) che la melodia da lui perseguita non nasceva sempre per incanto, ma era anche frutto di pensamenti e ripensamenti sino a che non veniva ‘trovata’ o ‘scoperta’47 2) di saper mandare ‘in pensione’ la tradizione ‘pittorica’ del madrigalismo cinquecentesco, che cercava di riprodurre, più alla lettera che nello spirito, il senso delle parole con le possibilità a disposizione della musica. Un altro esempio è fornito dal celeberrimo «Nessun dorma»: l’ossessiva iterazione di mosse armoniche e di cellule melodiche, semifrasi e frasi che si diffrangono, anche in imitazione, dal canto all’orchestra e viceversa (la figurazione iniziale croma puntata-semicroma è udita 24 volte su un totale di 33 battute) ben esprime il martellante pensiero di Calaf di possedere Turandot.48

Ma, così come sa potenziare la rappresentazione scenica, la sottile arte di Puccini è in grado di depotenziarla, rendendo ambiguo ed addirittura contraddicendo l’apparenza della situazione. Si pensi al ‘Coro muto’ della Madama Butterfly: le didascalie che ci narrano di una Butterfly «immobile, rigida come una statua» sono apertamente contraddette da una ‘musichetta’ che anche musicologi quali Mosco Carner e Michele Girardi hanno definito ‘ninna-nanna’.49 Che l’ingresso di una Butterfly serena ed amorosa, con il suo «Spira sul mar» in un tranquillo Do maggiore, sia supportato da accordi aumentati del coro rivela già l’incombere latente della tragedia: tali armonie caratterizzeranno infatti il terzo tragico atto. Ma anche far seguire nel primo atto il leitmotiv ‘della morte’ ad un potente «Amore mio!» di Butterfly sconcerterebbe non poco, se non si sapesse come va a finire la storia.

Quest’ultimo è un esempio chiarissimo della concezione del tempo in Puccini: un presente che rivive il passato prefigurando un futuro penoso è tipico del suadente magistero drammaturgico pucciniano. Ha dunque perfettamente ragione Gianfranco Vinay nell’affermare che

[Giacomo Puccini] individua nella sua opera una percezione del tempo affatto nuova per il linguaggio musicale, tale da annunciare, nel melodramma, modi e strumenti della moderna comunicazione. Puccini individua, all’atto dello scadere della tradizione melodrammatica, il disfarsi del tempo rappresentativo in un tempo discontinuo, relativo, multidirezionale, in cui è immersa la vivente quotidianità. Fin allora l’arco di tempo lungo cui si distribuivano le azioni dei personaggi dell’opera si era identificato con la traiettoria a direzione unica percorsa dall’attenzione dello spettatore e commisurata allo svolgimento dell’intreccio drammatico e musicale. Tale non è il tempo della quotidianità scoperto dal romanzo moderno e individuato musicalmente da Puccini. Un tempo che risulta da una catena di eventi drammatico-musicali momentanei protesi di continuo fuori della propria attualità, verso il passato e verso il futuro, palpitanti nel ricordo e nel presentimento, colti da punti di vista ora soggettivi, ora oggettivi secondo angolazioni sempre diverse. Un modo di sentire il tempo che Puccini mutua proprio dalla scissione fra gli ingredienti del vecchio melodramma; scissione, in primo luogo, fra melodia, parola, commento sinfonico e andamento agogico, ch’egli riassociando mette a frutto. La percezione di questa intima, sottile connessione crea il sentimento di una temporalità discontinua e aperta, che si fonde psicologicamente con i casi della rappresentazione, sino a riflettervi le insicurezze e le trepidazioni esistenziali della condizione piccolo-borghese contemporanea, obbligando l’ascoltatore a riconoscervisi in prima persona e a provarne intenso turbamento.50

La constatazione della presenza ‘attiva’ di una persona deceduta anteriormente allo svolgimento dell’azione scenica, sistematica a partire da Madama Butterfly,51 conferma come testo e musica concorrano ad un teatro dove il tempo della coscienza scorre mutevolmente anche a ritroso. Questo drammaturgia fondata su un presente in bilico continuo fra passato e futuro non può non richiamare alla mente l’opera di Henri Bergson (1859-1941), contemporaneo di Puccini. Anche per questo filosofo il passato è attuale nel presente che lo conserva, e dal presente nasce il futuro per spontaneo processo creativo.

[Per Henri Bergson] L’esistenza spirituale è un mutamento incessante, una corrente continua e ininterrotta che varia senza tregua, non sostituendo a ogni stato di coscienza un altro stato, ma disciogliendo gli stati stessi in una continuità fluida. […] La durata è il progresso continuo del passato che rode l’avvenire e si accresce avanzando. La memoria non è una facoltà speciale, ma è lo stesso divenire spirituale che spontaneamente conserva tutto di sé. Questa conservazione totale è nello stesso tempo una creazione totale, giacché ogni momento, pur essendo il risultato di tutti i momenti precedenti, è assolutamente nuovo rispetto ad essi.52

Ma il rifiuto di un tempo lineare che si svolge diacronicamente in un’unica direzione deve richiamare anche il pensiero di Albert Einstein, che proprio all’inizio del Novecento poneva le basi per il rifiuto di un ‘tempo assoluto’, dipendendo esso dal singolo osservatore.53

Anche senza cimentarsi in facili analisi stilistiche, si può adesso comprendere appieno perché avvicinare la musica in qualche modo ‘leggera’ alla composizione pucciniana significhi travisarla completamente.54 La musica leggera vive di immediatezza e di spazi brevi, mentre il compositore lucchese necessita di praterie temporali dove poter vagare disinvoltamente e in apparente libertà.

I collegamenti motivici apparentemente illogici, o comunque ambigui ed inquietanti sembrerebbero il corrispettivo del lapsus freudiano, cioè «l’uso non intenzionale di parole errate, imputabile non a imperizia o a ignoranza, ma a nascoste motivazioni inconsce, [… rivelatrici] di un conflitto tra l’intenzione cosciente e la tendenza repressa».55 A questo proposito si pensi a La fanciulla del West, quando Minnie fa scuola di religione ai minatori. Citando dal «Salmo cinquantunesimo, di David», conclude «che non v’è, | al mondo, | peccatore | cui non s’apra una via di redenzione…». Minnie sottolinea in chiusura: «Sappia ognuno di voi chiudere in sé | questa suprema verità d’amore». Proprio su quest’ultimo verso l’orchestra si distende nella melodia che caratterizza la canzone di Jake Wallace (es.4: I, 52, + 8 sgg). Come mai la «suprema verità d’amore» è abbinata da Puccini ai «vecchi», alla «mamma», al «cane» ed alla «casa»? 56 Siamo o no in presenza di un lapsus? Ai posteri l’ardua sentenza. Coglie dunque nel segno Sieghart Döhring, quando nota che

Già all’inizio dell’ultimo decennio del XIX secolo, dunque, era grande la vicinanza tra l’opera francese e quella italiana per quanto riguarda i procedimenti drammatici e musicali, processo di avvicinamento che Puccini portò avanti mediante il potenziamento della tecnica motivica. Con la propria «maniera allusiva» (secondo la definizione data da Claudio Casini all’impiego pucciniano dei motivi), ossia con l’insieme e l’intreccio delle allusioni semantiche e musicali, Puccini schiudeva alla musica drammatica la sfera dell’inconscio, in modo analogo a quanto nella stessa epoca faceva Debussy in Pelléas et Mélisande, anche se con diverso fondamento estetico. L’innesto sagace nella concezione drammatica pucciniana dell’«incantesimo dei riferimenti» dei motivi e dei frammenti motivici (questa definizione, coniata da Thomas Mann per la tecnica dei Leitmotive di Wagner, ben si adatta al sistema motivico perspicuo ed insieme enigmatico della Tosca) è certo creazione artistica individuale, la quale sfugge completamente alla categoria del nazionale.57

Siegmund Freud fa dell’inconscio il centro della teoria psicoanalitica.58 Puccini non solo esemplifica l’inconsapevolezza della vita psichica con il suo personalissimo uso del leitmotiv, ma sin da Manon Lescaut rappresenta sulla scena il ruolo fondamentale giocato dalla sessualità,59 ritenuta dalla psicoanalisi la molla fondamentale dell’agire umano.60 Il compositore sa mettere in scena non solo erotismo raffinato (incontro tra Rodolfo e Mimì, tra Minnie e Johnson, tra Liù e Calaf) ma anche crude immagini di sesso. Nel Tabarro, Giorgetta non usa perifrasi: «Ma quando tu mi prendi, | è pur grande il compenso». Ella si era peraltro già espressa chiaramente: «Vibro tutta se penso a iersera, | all’ardor dei tuoi baci!». Dal canto suo, Luigi riferisce di una «gioia rapita | fra spasimi e paure», di «grida soffocate» e «baci senza fine!». In Turandot, Calaf intende possedere la principessa, che non vuole essere ‘profanata’, rivivendo lo spregio subito «or son mill’anni e mille» da una sua ava.61 Puccini aveva dunque intravisto nella libido un istinto fondamentale presente nell’uomo: niente di più naturale che, con Calaf, questo trovi dunque spazio sul palcoscenico come forza positiva, senza implicazioni perverse o degradanti.

Anche da punti di vista extramusicali Puccini è dunque figlio del Novecento più avanzato. Ma non si vorrebbe ricadere nell’errore di guardare troppo ‘fuori Puccini’ per stabilirne l’assoluto valore. Questi excursus devono comunque inibire i complessi d’inferiorità, assicurando che «Puccini è un artista che pensa, anche là dove molti esegeti vogliono vedere solo una concessione superficiale ai cantanti e al pubblico. ‘Lacrime e sospiri’ per il compositore non sono il fine ma il mezzo espressivo di rappresentazione di un’idea drammatica».62

Il pubblico vede in Puccini l’amico vicino di casa, di cui pensa di conoscere tutto. Mentre il regista, il direttore di orchestra, il critico e il musicologo soffrono di un complesso di superiorità nei suoi confronti, ritenendolo troppo facilmente assimilabile ai loro pregiudizi ed esercitando dunque un’ermeneutica supponente, da ‘forte con il debole’.

Giacomo Puccini è dunque da ripensare drasticamente, sia come uomo sia come artista. E’ fondamentale rivalutare il primo, non solo per amore della verità, ma anche per evitare parallelismi banali ma di fatto purtroppo esercitati, che non permetterebbero ad una figura di nulla profondità culturale ed etica di accedere alla sacra sfera dell’Arte. Sarà però l’approfondimento della poco indagata drammaturgia pucciniana (miscela di testo, musica e scena nella mutevolezza dei loro rapporti), puntellata da una poetica monolitica, a dichiarare definitivamente Giacomo Puccini non tanto grande compositore, ma artista sommo.

di Michele Bianchi

pubblicato con il titolo Riflessioni pucciniane, in: «Rassegna Musicale Curci», anno LXVIII n.3, settembre 2015, pp.33-42

NOTE

1 Vedi ad es: Roman Vlad, Attualità di Puccini, in: Critica Pucciniana, Provincia di Lucca 1976, pp.152-189; Michele Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995.

2 A proposito di Madama Butterfly, Leonardo Pinzauti nota la «scaltrezza dell’autore», «le sue risorse di astuzia», e parla di un lavoro «tenuto insieme soprattutto da un consumatissimo mestiere e da una sorprendente capacità di captare e di tradurre in modo originale gli stilemi dell’impressionismo musicale novecentesco». Leonardo Pinzauti, Puccini: una vita, Vallecchi, Firenze 1974, p.105. Poco oltre Pinzauti amplia l’orizzonte: «[…] Il linguaggio musicale del maestro lucchese, in un arco non lungo di anni, subì affinamenti e modifiche così evidenti da costituire fin da allora un problema critico. Né indubbiamente è facile trovare un altro musicista vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento che abbia assimilato come Puccini, e con tanta forza, conservando una propria originalità di intonazione poetica, gusti e culture così diverse come potevano essere quelle rappresentate da Wagner e da Massenet, da Debussy e da Strauss, e più tardi, come vedremo, da Stravinskij e dalle prime prove di musicisti come Alfredo Casella e Gianfrancesco Malipiero. Il che potrebbe testimoniare soltanto una grande capacità di adattamento (e molti infatti gli fecero torto di essersi adeguato di volta in volta alle morbidezze strumentali e melodiche di Massenet, alle durezze armoniche di Strauss e alle arcane seduzioni del discorso timbrico di Debussy) se il fenomeno non fosse di così vistosa sistematicità da suggerire proprio l’idea di un Puccini condannato ad essere testimone del suo tempo, di un Puccini ‘moderno’ proprio per la sua fatale ambivalenza sentimentale e poetica, costantemente combattuto fra passato e presente, fra la facilità dell’istinto e il rodìo della ricerca». Leonardo Pinzauti, Puccini: una vita, Vallecchi, Firenze 1974, pp.101, 104, 105 e 108-9.

3 […] Riteniamo che una superficie di radicalismo armonico celi funzioni convenzionali anche negli accordi semi-diminuiti che agiscono nel contesto diatonico e nella scrittura pentatonica incorporata nella cadenza tonale. Benché vi siano buone ragioni per credere che Puccini fosse davvero interessato alle innovazioni più radicali dei suoi contemporanei, raramente esse vanno oltre la superficie del suo linguaggio musicale. Roger Parker, L’atto I della Tosca in prospettiva, trad. Virgilio Bernardoni (Analysis: Act I in Perspective, in: Giacomo Puccini. Tosca, a cura di Mosco Carner, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp.117-42), in: Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, Il Mulino, Bologna 1996, pp.121-51: 141.

4 Vedi ad esempio le educate riserve di Marcello Conati: «Se mai un addebito è possibile imputare a Puccini è forse quello di troppa modestia, di aver cioè talvolta sottovalutato le potenzialità che la sua stessa sensibilità musicale era in grado di esercitare in rapporto all’espressione drammatica, non arrischiando (lo dico sottovoce e senza troppa convinzione) soggetti meglio adeguati per ricchezza e complessità di contenuti alla magistrale tecnica compositiva di cui era fornito e allo straordinario intuito teatrale, tutto orientato verso orizzonti d’avanguardia». Marcello Conati, Il linguaggio musicale di Giacomo Puccini (A proposito di Madama Butterfly), «Diastema», n.5, II, giugno 1993, pp.49-51.

5 Diether Schickling, Giacomo Puccini. La vita e l’arte, (traduzione di Davide Arduini da: Puccini. Biografie, Carus-Verlag, Stuttgart 2007), Felici Editore, Ghezzano (Pisa) 2008, p.27. Schikling ha collaborato con Helmut Krausser, autore de I demoni di Puccini di Helmut Krausser (Helmut Krausser, I demoni di Puccini, Romanzo, traduzione di Giovanni Giri, (Die kleinen Gärten des Maestro Puccini, DuMont Buchverlag, Köln 2008), Lorenzo Barbera Editore, Lavis (Tn) 2008), «cronique scandaleuse» sotto le vesti di romanzo documentario. La presenza di alcune lettere citate «senza subire alcuna manipolazione» sballottano continuamente dal reale al fittizio, sì che lo sprovveduto può facilmente sintonizzarsi sull’onda ‘demoniaca’ che animerebbe il compositore. Ma i ‘demoni’, sembrerebbero appartenere più all’autore che a Puccini.

6 «Faccio della musica sentita da me e non da altri ispirata! Questo grave difetto mio è il difetto dei grandi autori – da Bellini a Wagner – e perciò non mi dò tanto pensiero di cambiare cifra, né potrei farlo». Ad Alberto Crecchi, 8 ottobre 1902, in: Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Ricordi, Milano 1958, n.284, p.224; «L’arte è quella che è e soprattutto è quella che faccio io». 10 febbraio 1924, in: Giacomo Puccini, Lettere a Riccardo Schnabl, a cura di Simonetta Puccini, Emme Edizioni, Milano 1981, n.128, p.233. Puccini prende poi dichiaratamente le distanze dall’operetta: «Lasciali dire i nemici. Anche qui si dice che mi sono abbassato a far l’operetta come Leoncavallo!! Questo mai e poi mai. Poi, come lui, non mi riuscirebbe neppure a farlo apposta». Ad Angelo Eisner, 25 marzo 1914, in: Carteggi Pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Ricordi, Milano 1958, n.646, pp.421-2. Sempre riferendosi a Leoncavallo, il giorno precedente aveva invece affermato: «Io non scendo tanti gradini, voglio e devo rimanere o devo salire ancora». Ad Albina Franceschini, 24 marzo 1914, in: Puccini com’era, a cura di Arnaldo Marchetti, Curci, Milano 1973, n.420, p.414.

7 Marco Beghelli, Morfologia dell’opera italiana da Rossini a Puccini, in: Enciclopedia della musica, vol. IV, Storia della musica europea, Torino, Einaudi 2004, p.915. Insufficiente risulta l’asettica, aproblematica e velocissima disamina: Stefano A.E. Leoni, La situazione dell’opera, in: Storia della musica, vol.IV, UTET, Torino 2004, pp.48-9.

8 Si veda la disamina non proprio esaltante fornita da: Rossana Dalmonte, Musica leggera, in: DEUMM, Il lessico, vol.II, UTET, Torino 1983, pp.672-5: 672. «[…] La musica leggera, anche di prima qualità, si differenzia comunque dalla musica colta, anche se si tratta di un prodotto epigonico artisticamente inutile, poiché il suo obiettivo non è quello di allargare l’orizzonte culturale di chi l’ascolta, bensì quello di produrre e di vendere facendo divertire o commuovere, sognare o danzare la più larga fascia di utenti di età e classi sociali diverse. E si differenzia anche dalla musica popolare, benché in qualche caso venga utilizzata in maniera analoga per ragioni di mercato: infatti, mentre la musica popolare nasce dall’interpretazione diretta dei bisogni e delle passioni di chi poi la canta o l’ascolta, la musica leggera è prodotta e diffusa da specialisti sulla base di una domanda implicita e spesso indotta».

9 Vedi il paragrafo «Manon Lescaut mi chiamo»: Puccini interprete di Wagner, in: Girardi, pp.81-92.

10 Le cellule della frase «Manon Lescaut mi chiamo» che si ripresentano nel corso dell’opera connotano il pensiero ossessivo e la bruciante ‘passione disperata’ di Des Grieux. Quella che per Puccini distingueva la sua opera dalla Manon di Massenet.

11 Fausto Torrefranca, Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Torino, Fratelli Bocca 1912, pp.87-8.

12 L’‘esistenzialismo’ pucciniano ha orrore del vuoto e cerca disperatamente di fuggire il mare aperto per attraccare in ogni porto ben attrezzato al ricovero di un imbarcazione squassata dai marosi della vita. Egli rappresenta cioè l’altra faccia di una medaglia alla memoria di un periodo contrassegnato dalla crisi e caratterizzato da un’avanguardia che saprà disintegrare la tradizione musicale precedente nel tentativo di fondarne una alternativa su basi completamente rinnovate. Quella di Giacomo Puccini è dunque l’esatto contrario di una poetica che può assurgere a «paradigma di un possibile pensiero filosofico, ossia prefigurazione e metafora di una parallela trasformazione dell’intera visione tradizionale della realtà. Di una visione nella quale quest’ultima non può esser più vista come qualcosa di sostanziale, bensì come sistema di relazioni in continua «metamorfosi» ma del tutto infondate, cioè non appoggiate a niente di dato a priori – se non a loro stesse. Prodotti di leggi relazionali in continuo mutamento, ma senza che ciò rinvii ad un Fondamento ulteriore o ad uno spessore di realtà esterno». Enrica Lisciani-Petrini, Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento, Einaudi, Torino 2001, p.168. La Lisciani Petrini sembra aver parafrasato Eugenio Montale, che afferma: «Tutti gli artisti che hanno operato nel mondo civile, ossia nel mondo non magico, dall’età ellenica fino ai primi del Novecento, hanno sempre peccato di mimesi, hanno cioè descritto (o alluso) qualcosa che trascendeva la loro stessa opera. Questo «qualcosa» poteva essere un’entità o una ragione che restava sottesa al significato apparente dell’opera, e poteva considerarsi come una invariabile opposta o distinta dalla mutevolezza delle varie forme create dagli artisti. Anche quando i creatori parvero allontanarsi dalla stretta imitazione del vero – i primitivi, i barocchi, i romantici, gli impressionisti ecc. – il riferimento all’Eterno, all’Immutabile si faceva più remoto ma non mancava mai». Eugenio Montale, Auto da fé [10/7/1959], in: Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1996, p.291. Puccini combatte dunque con tutte le sue forze il «sovvertimento del terreno d’appoggio fiduciosamente esperito come saldo e sicuro, come orizzonte di senso univoco ed eterno, della tradizione» operato dai coevi Debussy, Stravinskij, Ravel e Schönberg. Ibidem, p.190. Pur avvertendo la «crisi della razionalità» in atto, Ibidem, p.185. Puccini cerca disperatamente di fronteggiarla con tutti i mezzi a sua disposizione, nella strenua «convinzione che ci fosse un Essere certo e imperituro al fondo delle cose». Ibidem, p.189.

13 Profetico il suo vaticinio sulla «La Gazzetta Piemontese»: «La Bohème, come non lascia grande impressione sull’animo degli uditori, non lascerà grande traccia nella storia del nostro teatro lirico».

14 Giovanni Carli Ballola ha accusato Puccini di «un’insopportabile volgarità da piccola provincia italiana», di una «precisa responsabilità della nascita di un certo sentimentalismo popolare», di «violenza sentimentale, della vocazione a mettere tutto in piazza, abolendo le mezze frasi, le allusioni, le grandi passioni represse». Intervista a Giovanni Carli Ballola, «Repubblica», 1/2 agosto 1993, p.33, citato da: Marcello Conati, Puccini drammaturgo: strategie dell’emozione, in: Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, Atti del Convegno internazionale di studi su Giacomo Puccini nel 70° anniversario della morte (Lucca, 25-29 novembre 1994), a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Carolyn Gianturco, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1997, pp.399-424.

15 Si pensi al vergognoso battage pubblicitario per un film tutt’altro che leggendario (quale Puccini e la fanciulla di Paolo Benvenuti del 2008), forse mai riservato a nessun capolavoro cinematografico.

16 Casini parla ad esempio di «gelo psicologico di Puccini, del quale non si saprà mai se fu troppo o troppo poco sensibile». Claudio Casini, Puccini, UTET, Torino 1978, p.18.

17 Vedi: Giulio Battelli, Giacomo Puccini all’Istituto Musicale «G. Pacini», in: Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, cit., pp.3-21.

18 Natale Gallini, Gli anni giovanili di Giacomo Puccini, in: «L’approdo musicale», II/6, 1959, pp.28-52.

19 Musicista, critico musicale e direttore artistico della Casa musicale Sonzogno Amintore Galli (1845-1919), insegnò contrappunto ed estetica musicale al Conservatorio di Milano dal 1878 al 1903. Quando Puccini accede al Conservatorio milanese, il Galli ha già al suo attivo un decennio di pubblicazioni, che confluiranno nell’enciclopedica Estetica della musica del 1900. Amintore Galli, Estetica della musica, ossia del Bello nella Musica sacra, Teatrale e da Concerto in ordine alla sua storia, Bocca, Torino 1900.

20 In essa si pone «l’Amore come punto d’origine dei nostri fatti interni […]. E’ all’Amore -il desiderio inesplebile [sic (?)] del Bene, l’arcana possanza che tutto governa- che l’uomo deve l’intuito dell’ideale, l’incessante aspirare che egli fa ad esso e s’egli giunge a creare le grandi opere d’arte. […] Dal canto suo, l’ideale ha proprie leggi, e pur queste sono da noi ricordate nei principi del Bello e dell’alta finalità dell’Arte». Galli, p.VI. Galli precisa che «le svariate forme dell’amore sono dette passioni. Colla voce passioni si intendono gli eccessi delle emozioni naturali. Resta perciò stabilito che le passioni sono una trasformazione dell’amore. […] Per un sentimento innato, l’uomo odia ciò che gl’impedisce di conseguire l’oggetto della sua inclinazione». Galli, p.8. Questo tipo di teorizzazione poneva le basi ad una drammaturgia pucciniana tutta ancora da venire. Puccini vivrà ‘sulla pelle’ «gli eccessi delle emozioni naturali», e non li inibirà mai ai personaggi delle sue opere, dall’Anna e Roberto de Le villi a Liù, Calaf e Turandot. E che «le passioni [siano] una trasformazione dell’amore» si è verificabile in Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. Sull’arte e nell’arte di un drammaturgo, ETS, Pisa 2001, paragrafo 4.5. Non essendo odio e vendetta ‘sentimenti pucciniani’, la poetica del compositore ha sempre e solo ruotato intorno alla fonte delle passioni. L’Amore come fulcro dell’agire umano è stato sviscerato in tutte le sue sfumature da Puccini, che sembra aver preso alla lettera gli insegnamenti di un suo poco ricordato professore. Pragmaticamente, il Galli tende a non perdere di vista «l’accordo fra il sentimento e l’intelligenza, i due organi della funzionalità estetica». Galli, p.VII. «[…] la musica non produrrebbe in noi le sue arcane impressioni […] se in noi non esistesse, non altrimenti che per le altre arti, un ricettacolo dove la sensazione si svolge dapprima in percezione e poscia si trasforma in commozione sentimentale, in affetti, richiamando costantemente fatti puramente intellettuali, ed elevando la nostra anima agli ideali d’ogni perfezione, e cioè: al vero, al bello, al bene, in virtù delle nostre facoltà sintetiche e del principio d’associazione, pel quale si ha l’unità dell’essere, dell’anima e dell’intelligenza. Galli, pp.3-4. Questo binomio sarà decisamente allentato dall’ormai imminente estetica del Croce, che esalterà la funzione del primo a scapito della seconda, confluente nell’incessante circolarità dello spirito. «Croce ammette  quattro di questi gradi che si raggruppano nelle due forme fondamentali dello spirito, quella teoretica e quella pratica. Arte e filosofia costituiscono la forma teoretica, economia ed etica la forma pratica. […] Ogni momento condiziona il momento susseguente, ma non ne è a sua volta condizionato. […] La vita dello spirito si sviluppa circolarmente nel senso che ripercorre incessantemente i suoi momenti o forme fondamentali; ma li ripercorre arricchita ogni volta dal contenuto delle precedenti circolazioni e senza ripetersi mai». Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, vol.III, Torino, UTET 1974, p.504.

21 Michele Bianchi, Giacomo Puccini benefattore, «Luccamusica», «anno quarto», n.38, marzo 2006, Tipografia Tommasi, 2006, pp.8-9.

22 Michele Bianchi, Chiatri ed un ecologista ante litteram, «Luccamusica», «anno quarto», n.37, febbraio 2006, Tipografia Tommasi, 2006, pp.8-9.

23 […] la distanza, però, non fu troppo grande difficoltà per avvicinarci l’uno all’altro assai rapidamente; oggi me ne domando le ragioni, e vedo che la principale fu, da parte sua, quel largo e profondo senso di simpatia umana che ne faceva un uomo amabile a chiunque (a parte l’ammirazione per l’artista) lo avvicinasse con amore… Un uomo al quale era tanto facile voler bene…! Che non sia forse questo quel che l’anima delle folle in tutto il mondo ha sentito e ancora sente a traverso il suo dolce canto? Vittorio Gui, Ricordando, in «L’approdo musicale», II/6, 1959, pp.72-80.

24 «Suppongo perciò anche che furono i competenti ad accogliere così ostilmente il Pierrot lunaire quando lo diressi in Italia, ma non chi ama l’arte. Ebbi l’onore che Puccini, il quale non era un competente ma uno che sapeva il suo mestiere, pur essendo già infermo fece un viaggio di sei ore per venire a sentire questo pezzo, e mi disse poi cose molto gentili. E ciò fu bello, anche se la mia musica dev’essergli pur sempre rimasta estranea». Arnold Schoenberg, Il mio pubblico, (1930), in: Analisi e pratica musicale, a cura di Ivan Vojtech, traduzione di Giacomo Manzoni, Torino, Einaudi 1974, pp.99-102. «A una rappresentazione di Petruska al Theatre du Chatelet fui presentato a Giacomo Puccini. Puccini, uomo imponente e di bell’aspetto anche se un po’ troppo dandy, fu subito molto cortese con me. Aveva detto a Djagilev e ad altri che la mia musica era orribile ma, nello stesso tempo, piena di talento. Quando, dopo il Sacre, mi presi il tifo e mi misi a letto, prima in un albergo e in seguito in un ospedale di Neuilly, Puccini fu una delle prime persone che venne a farmi visita; Diagjlev invece, che aveva terrore che glielo attaccassi, non venne mai a trovarmi, pagò però le spese dell’ospedale. Avevo parlato con Debussy della musica di Puccini e ricordo che ­contrariamente alla biografia di Puccini di Carner – Debussy la rispettava, come d’altronde anch’io. Puccini era un uomo affettuoso, un gentleman affabile e democratico. Parlava un italo-francese un po’ pesante, come il mio russo-francese, ma nonostante questo e nonostante la distanza musicale che intercorreva fra noi, non ci furono ostacoli alla nostra amicizia. Ho talvolta pensato che Puccini non si fosse dimenticato del tutto dell’a solo di tuba di Petruska quando scrisse la musica dello Schicchi, sette battute prima del numero 78». Igor Stravinsky e Robert Craft, Colloqui con Stravinsky, trad. di Luigi Bonino Savarino (Conversations with Igor Stravinsky Memories and Commentaries Expositions and Developments, Faber and Faber e Doubleday 1958) Torino, Einaudi 1977, p.328.

25 Vedi: Michele Bianchi, Il caso Trittico. Vitalità della morte e declino della vita, in: Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, cit., pp.215-29.

26 Julian Budden, Introduzione, in: Vissi d’arte, vissi d’amore. Puccini. Vita, immagini, ritratti, Grafiche Step Editrice 2003, p.11. Budden continua «Eventi come gli scontri del 1898, la dittatura temporanea del generale Pelloux o la campagna libica del 1911 lo lasciarono del tutto indifferente. Solo la Prima Guerra Mondiale gli causò preoccupazione». Vedi anche: Julian Budden, Puccini. His Life and Works, Oxford University Press, Oxford 2002, p.475-6. «Politics meant nothing to him. All that he wanted was a sistem of government that would ensure him a confortable existence and allow him to compose in peace and quiet».

27 Vedi: Michele Bianchi, Puccini e la politica, in: Il tabarro di Giacomo Puccini. Il Maestro a Pescaglia, Atti della I Giornata Pucciniana, Monsagrati di Pescaglia, Villa Mansi, 15 settembre 2002, a cura di Michele Bianchi, Promolucca/Comune di Pescaglia, Lucca 2003, pp.56-78.

28 Carner, p.496.

29 Claudio Casini, Puccini, UTET, Torino 1978, p.206.

30 Avendo assistito il compositore negli ultimi tragici giorni di Bruxelles, il cardinale Clemente Micara conferma in prima persona: «Durante i miei colloqui si era insinuata tuttavia in lui una serena rassegnazione alla volontà divina. […] Recai al maestro ogni conforto religioso ed egli ne fu cosciente e confortato. […] Pio XI […] fu consolato dal pensiero che al suo trapasso Puccini ebbe ogni viatico ed assoluzione per accompagnar quella nobile anima verso il Divino giudizio». Raffaele Marchi, Gli ultimi momenti di Giacomo Puccini, in: «Notiziario filatelico», anno VI, n.2, Febbraio 1966, Lucca, pp.31-2. Come spiega lo stesso Marchi, «nel 1958 il cardinale Clemente Micara concesse ad un redattore dell’«Osservatore della domenica» una intervista rievocando gli ultimi momenti di Giacomo Puccini. Ricopio il contenuto di tale intervista da un ritaglio di giornale (manca l’intestazione) conservato fra le mie carte». Vedi almeno: Michele Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. Sull’arte e nell’arte di un drammaturgo, Pisa, ETS 2001,paragrafo 2 Il Dio santo, pp.. Michele Bianchi, Giacomo Puccini: un credente, «Luccamusica», «anno quarto», n.39, aprile 2006, Tipografia Tommasi, 2006, pp.8-9; Oriano De Ranieri, La religiosità in Puccini. La fede nelle opere del Maestro, Zecchini Editore, Varese 2013.

31 Prima di tutto, nessun compositore si pone il problema di esplicitare le proprie intenzioni: semplicemente affida queste intenzioni allo stile che adotta. La sua azione di artista consiste nel dialogare con le regole stilistiche socialmente diffuse, nell’accettarle, nell’usarle con particolari criteri, nel rifiutarle, nel modificarle. Mai nell’esplicitare le sue intenzioni: chi lo fa è cattivo artefice, è colui che sostituisce la ricchezza della fantasia creativa con la vaga ambizione di possedere doti che purtroppo non ha. Non c’è niente di più falso di una musica, o di un’opera d’arte in genere, che esibisce le sue intenzioni. A onta di queste difficoltà ermeneutiche, si può e si deve tuttavia pensare che un testo sia sempre frutto di intenzioni, che non venga composto per caso: le circostanze pragmatiche della sua formulazione devono comunque far parte del processo interpretativo (la poietica “esterna” di Nattiez mira a ricostruirle)». Mario Baroni, L’ermeneutica musicale, in: Enciclopedia della musica. Il sapere musicale, vol.II, p.650.

32 «Ogni artista nella sua stessa attività implicitamente conferisce all’arte una determinata funzione, uno speciale posto nella scala dei valori, una particolare importanza nel complesso della vita; e questa valutazione è ben presente nella sua opera, che, nel reclamare l’assenso, mira a sollecitare lo stesso apprezzamento nel lettore, o addirittura ve lo presuppone». Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Sansoni, Firenze 19743 (19541), p.309.

33 Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini. cit. L’unico che ha tentato di dare un quadro articolato di una poetica pucciniana intesa come riflessione sull’operare artistico è Mosco Carner, con l’ancor oggi fondamentale biografia critica già citata. «Puccini non è solo importante nella storia dell’opera, ma rappresenta un punto di vista netto e preciso nella storia delle poetiche del teatro musicale, perché esiste una concezione specificatamente pucciniana dell’opera, anche se si tratta di una concezione ristretta – per quanto egli abbia tentato di ampliarla nell’ultimo periodo – ed offuscata da caratteri nevrotici. Paragonata al microcosmo creato dai grandi maestri dell’opera, la sua orbita è limitata – nella scelta degli argomenti, nella varietà dei personaggi e nella profondità musicale. Puccini non ci impegna su parecchi livelli come Mozart, Wagner, Verdi e Strauss. Tuttavia resta un maestro insuperabile al livello che gli è proprio, quello in cui la passione erotica, la sensualità, la tenerezza, il pathos e la disperazione si incontrano e si fondono. […] I suoi limiti sostanziali erano molto più di ordine psicologico che non artistico, e in questo consiste la tragedia di un artista potenzialmente grande». Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica., traduzione di Luisa Pavolini (Puccini. A Critical Biography, Gerald Duckworth & Co., London 1958), 19814 (19611), pp.341 e 390. Il poco ascoltato René Leibowitz aveva subito richiesto di ampliare la visuale sul ‘fenomeno Puccini’, affermando che «non si può fare un’opera se l’idea dell’opera non esista «a priori». In questo senso non ci può essere assolutamente alcun dubbio che tra tutti i grandi compositori d’opera Puccini sia uno di quelli per i quali l’idea dell’opera esisteva «a priori», e nel modo più imperioso possibile. […] l’idea a priori dell’opera […] esiste in lui con una forza e una chiarezza straordinarie […]». René Leibowitz, L’arte di Giacomo Puccini, in: «L’approdo musicale», anno II/6, aprile-giugno 1959, pp.3-27. Consultabile anche in: René Leibowitz, Storia dell’opera, traduzione di Maria Galli de’ Furlani (Histoire de l’opéra, Buchet/Chastel, Paris 1957), Garzanti, Milano 1966, pp.373-397. Quando ancora Puccini era solo un giovane di belle speranze, Giulio Ricordi riconosceva infatti che egli «a parer nostro, ha qualche cosa di più, e questo qualche cosa è forse la più preziosa delle doti, quella alla ricerca della quale s’affannano e s’arrabattano tanti genî incompresi, la cui impotenza si maschera sotto lo specioso nome dell’avvenire! … Questa preziosa qualità, del nostro Puccini, è di avere nella propria testa (ou dans son ventre, come dicono i francesi) delle idee: e queste si hanno o non si hanno […]». «Gazzetta musicale di Milano», XL/5, 1 febbraio 1885, pp.44-6, consultabile in: Girardi, p.37.

34 Pareyson, p.315.

35 Ma «il nodo pressoché insuperabile della creatività catalaniana» consiste nel «possedere una natura lirica elegante e discreta […]; e il suo essere, invece, dominato da una cultura germanizzante protoromantica, e dall’aspirazione a creare in Italia un teatro tra l’eroico e il fantastico che cercava i suoi modelli – se vogliamo – negli ormai lontani Freischütz e Oberon». Cesare Orselli, Edmea, in: Le opere di Alfredo Catalani, «Rivista di Archeologia Storia Costume», anno XXI, n.2-4/1993, pp.47-81). Guido Salvetti precisa: «Eppure, come sempre in Catalani, [le] scelte non sembrano mai abbastanza coscienti per essere nette e definitive. La componente realistico-coloristica da grand-opéra e il gusto esornativo di un soprannaturale da salotto continuano a esercitare un ruolo fin eccessivo rispetto alla scelta vocalistico-psicologica. E’ come se l’autore tentasse l’impossibile compresenza di almeno tre drammaturgie diverse. Catalani continua cioè ad appartenere a quel momento storico in cui l’incontro delle più diverse suggestioni culturali scoraggiava dalle scelte risolutive: quelle, per intenderci, che Cavalleria riuscirà a fare, buttando a mare tutta insieme e tutta in una volta l’affascinante complessità degli anni Ottanta». Guido Salvetti, Da Elda a Loreley: contraddizioni di un percorso, in: Le opere di Alfredo Catalani, «Rivista di Archeologia Storia Costume», anno XXI, n.2-4/1993, pp.83-95.

36 Isabelle Peretz, La musica e il cervello, in: Enciclopedia della musica, vol. II, Il sapere musicale, Torino, Einaudi 2002, pp.241-70: 244. «Dunque, se esiste una facoltà musicale nel cervello, il suo substrato è senz’altro situato nelle reti neuronali del lobo temporale superiore del cervello umano». Peretz, p.249.

37«[…] le aree cerebrali attivate per la musica appaiono diverse e adiacenti rispetto a quelle interessate dal linguaggio. La separazione anatomica conferma la sensibile autonomia della musica rispetto al linguaggio, indipendentemente dal fatto che il codice sia visivo o uditivo. L’organizzazione cerebrale parallela lascia supporre che i moduli deputati alla musica e al linguaggio seguano un percorso molto simile. Peretz, p.254. «Un’ipotesi interessante è quella di considerare la possibilità che l’emisfero sinistro sia la parte educata del cervello. Essendo i primi studi relativi a questi casi basati sull’osservazione di professionisti della musica, è ovvio […] che si venissero a sommare le condizioni atte a dimostrare la dominanza dell’emisfero [cerebrale] esperto (nei musicisti, quello sinistro). Al contrario, poiché gli studi su vaste platee di soggetti interessano persone di qualsiasi provenienza, essi includono una preponderante maggioranza di individui musicalmente non preparati e mettono perciò in risalto l’emisfero del novizio (ossia l’emisfero destro dei non musicisti)». Peretz, p.257-8.

38 Vedi: Michele Bianchi, Alfredo Catalani, grande musicista, in: Alfredo Catalani nel centocinquantesimo anniversario della nascita (1854-2004), a cura di Beppino Lenzi, Aldo Berti, Nicola Laganà, Tipografia Francescani, Lucca 2004, pp.207-17; Michele Bianchi, Catalani dimenticato, «Luccamusica», «anno secondo», n.23, Tipografia Tommasi, Lucca 2004, pp.8-9.

39 «Quale sia l’avvenire della musica francese, lo ignoro. Ma credo nondimeno che andrà rinnovandosi nella melodia; le qualità primigenie dei latini risiedono in essa. Ciò che oggi viene giudicato un difetto, verrà apprezzato un domani». Ce que M. Puccini pense de nos compositeurs, intervista di P.Montamet, 9 maggio 1912, p.3, pubblicata sulla rivista «Excelsior», in: Fiamma Nicolodi, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Sansoni, Firenze 1982, p.65.

40 Ancor oggi è in voga il termine «Gesangoper […] impiegato dalla musicologia, ma più spesso dalla pubblicistica di lingua tedesca, sovente in senso dispregiativo, per indicare l’opera italiana, in cui sostanzialmente predominerebbe la voce su dramma». Cfr Egon Voss, Musikdrama und Gesangoper, in: Funk-Kolleg Musik, a cura di Carl Dahlhaus, Frankfurt, Fischer, 1981, I, pp.274-304, in: Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, cit., nota 54, p.49. Anche Adorno si è espresso su Puccini: «In linea generale la musica leggera – fino a Puccini che sta a mezza via tra i due settori [arte ‘inferiore’ (musica leggera/operetta e arte ‘superiore’ (musica colta)] – è tanto peggiore quanto più assume atteggiamenti pretenziosi, cui del resto la induce continuamente proprio un certo tiepido atteggiamento autocritico». Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, traduzione di Giacomo Manzoni, (Einleitung in die Musiksoziologie. Zwoelf theoretische Vorlesungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1962), Einaudi, Torino 1971, pp.27-8. La citazione è in un contesto dove si discute di operetta. Adorno cita ancora Puccini, implicitamente tacciandolo di essere a servizio del potere economico: «Tra i compositori della cultura musicale ufficiale, i primi che valorizzarono compiutamente la loro produzione in senso capitalistico furono presumibilmente Puccini e Strauss; […] la società controllava la musica tenendo i compositori alla catena, una catena assai corta e niente affatto dorata. E la posizione del postulante potenziale non è mai favorevole all’opposizione sociale. Per questo v’è tanta musica allegra». Adorno, p.71.

41 «modalità, tonalità, polarità sono soltanto dei mezzi provvisori, che passano, o passeranno. Ciò che sopravvive a tutti i cambiamenti di sistema è la melodia. […] La melodia è dunque il canto musicale di una frase cadenzata, e intendo il termine cadenzato nel senso generale, non nel senso musicale. La capacità melodica è un dono, non ci è dato svilupparla con lo studio, […] Bellini ha ricevuto la melodia senza essersi data la pena di domandarla, come se il Cielo gli avesse detto: «Io ti dono esattamente quel che mancava a Beethoven». Sotto l’influenza del dotto intellettualismo che regnava tra i melòmani della specie seria, invalse per qualche tempo la moda di disprezzar la melodia. Io comincio a pensare, d’accordo con il gran pubblico, che la melodia debba conservare il suo posto al sommo della gerarchia degli elementi che formano la musica. La melodia è il più essenziale, non perché sia il più immediatamente percettibile, ma perché è la voce dominante del discorso musicale, non soltanto in senso proprio, ma figurato». Igor Stravinsky, Poetica musicale (Poétique musicale, Cambridge 1942), Curci, Milano 1954, pp.36-8.

42 E’, fra l’altro, direttore dell’Enciclopedia della Musica edita da Einaudi in cinque volumi a partire dal 2001. Un’opera dichiaratamente progressista di una casa editrice progressista non si pensa sia stata diretta da uno studioso particolarmente conservatore.

43 Jean Jacques Nattiez, Melodia, in: Jean Jacques Nattiez, Il discorso musicale. Per una semiologia della musica, Einaudi, Torino 1977-87, p.90. Questo, come altri saggi del libro, sono nati per l’Enciclopedia Einaudi e poi «aggiornati e rivisti dall’autore in occasione della loro riedizione in volume». Vedi anche Musica/Suono/Rumore, in: Nattiez, pp.30-1: «Non v’era nel loro [dei ‘concreti’ ed ‘elettronici’] atteggiamento la coscienza più o meno chiara che non ci si sbarazzava tanto facilmente dell’altezza? […] Ma è possibile fare delle opere mediante sole successioni di timbri?».

44 «La melodia è un’amalgama di numerose variabili in costante interazione» e «non vi è limite al numero di tipi di analisi melodiche possibili». Nattiez, pp.105-6.

45 Marco Ravasini, Melodia, in: Introduzione alla musica, a cura di Ettore Napoli, Mondadori, Milano 1988, p.54.

46 Vedi: Carl Dahlhaus, Drammaturgia dell’opera italiana, traduzione italiana di Lorenzo Bianconi, in: Storia dell’Opera Italiana, Teorie e tecniche. Immagini e fantasmi, vol.6, EDT, Torino 1988, pp.77-158. Per Carl Dahlhaus la musica è il «fattore primario che costituisce l’opera d’arte (opus), e la costituisce in quanto dramma». Egli precisa poi: «La tesi che individua nella musica il fattore fondante e costitutivo di quel dramma peculiare ch’è l’opera – una tesi che non si limita certo a constatare la preponderanza della musica – affida alla drammaturgia musicale il compito di definire quali rapporti intercorrano di volta in volta tra la musica e gli altri fattori parziali convergenti nell’opus artistico composito. Definire tali rapporti equivale a determinare una gerarchia con gradi variabili di preminenza e subordinazione. Si può infatti, prima ancora di addentrarci in analisi particolareggiate, dare per scontato che la relazione (la vicinanza o la distanza) tra la musica e [gli altri fattori] sarà di volta in volta diversissima, sia che la si indaghi caso per caso (nell’opera singola o nel singolo tipo), sia che la si esamini globalmente (nel teatro d’opera preso nel suo complesso o genere per genere). […] Sarà la funzione della musica a decretare, alla fin fine, il tipo di dramma musicale cui appartiene, caso per caso, un’opera. […] Non conta tanto il fatto che la musica «prepondera», conta la funzione ch’essa svolge nella costituzione del dramma musicale». Da consultare inoltre: La drammaturgia musicale, a cura di Lorenzo Bianconi, Il Mulino, Bologna 1986. Si segnala in particolare: Pierluigi Petrobelli, La musica nel teatro: a proposito dell’atto III di Aida, pp.143-56.

47 Vedi: Teodoro Celli, Gli abbozzi per Turandot, «Quaderni pucciniani 1985», (già in «La Scala» aprile maggio 1951), Matteoni, Lucca 1986, pp.43-65: Scoprire la melodia, pp.43-51.

48 Vedi: Bianchi, La poetica di Giacomo Puccini, paragrafo 2.7, ma anche 2.14 e 3.5.

49 Carner, pp. 540-1; Girardi, p.245. Ma «Butterfly si pone innanzi al foro più alto e spiando da esso rimane immobile, rigida come una statua». La didascalia seguente, a coro inoltrato, conferma la particolare postura della donna: «il bimbo si addormenta, rovesciandosi all’indietro, disteso sul cuscino e Suzuki si addormenta pure, rimanendo accosciata: solo Butterfly rimane sempre ritta ed immobile». Non è la prima volta che Butterfly si trova in questa posizione attestante una grande tensione interna. Quando nel primo atto Sharpless chiede alla fanciulla notizie del padre, questa «si arresta sorpresa; poi, secco, secco, risponde: Morto!». Al termine di «Io seguo il mio destino» nuovamente «si arresta come se avesse paura d’essere stata udita dai parenti». Dopo essere stata rinnegata dai parenti, «Butterfly sta sempre immobile e muta con la faccia nelle mani». Nell’atto secondo, dopo che il console le ha posto la tragica domanda «Ebbene, | che fareste, Madama Butterfly, | s’ei non dovesse ritornar più mai?», ella rimane «immobile, come colpita a morte». E quando Goro profetizza sventure per il figlio «nato maledetto», nuovamente «rimane immobile come impietrita». Nel terzo atto, Butterfly viene a sapere che Pinkerton è vivo, e reagisce «come se avesse ricevuto un colpo mortale: irrigidita». Arresasi ad abbandonare il figlio, «rimane immobile e calma». La tragedia è ormai compiuta. Ritroveremo Butterfly in chiusura, quando ella «si inginocchia davanti all’immagine di Budda». Straordinari leitmotive dalla valenza scenica che segnano oltretutto un crescendo di angoscia repressa, questi richiami interni al testo evidenziano come Butterfly si irrigidisca in situazioni che la rendono sempre più cosciente di un’esistenza stravolta, e fungono da presentimento per nuove e ancor più difficili prove. Si ha così la conferma che la ‘scena muta’ non intende alludere né ad una ninna-nanna né ad una situazione di serena spensieratezza, ma è la chiave di volta di uno svolgimento che, già incanalato sulla via del pessimismo, sta precipitando verso la tragedia. Michele Bianchi, Il ‘coro muto’ della «Madama Butterfly», in: «Nuova Rivista Musicale Italiana», 1/4, gennaio/dicembre 1998, Rai Eri, Roma 1999, pp.265-83.

50 Gianfranco Vinay, La musica del secondo Ottocento, in: Mario Baroni, Enrico Fubini, Paolo Petazzi, Piero Santi, Gianfranco Vinay, Storia della musica, Einaudi, Milano 1988, p.380.

51 Il ricordo e l’esempio paterno determinano e rafforzano in Butterfly la convinzione che «con onor muore chi non può serbar vita con onore». Ne La fanciulla del West, Johnson narra egli stesso come sono andate le cose: «Era ladro il mio nome | da quando venni al mondo. | Ma fino a che fu vivo | mio padre, io non sapevo. | Quando, or son sei mesi, | egli morì, soltanto allora appresi! | Sola ricchezza mia, mio solo pane | per la madre e i fratelli, alla dimane, | l’eredità paterna: una masnada | di banditi da strada! L’accettai. | Era quello il destino mio!». Negli episodi di ciascuna opera del Trittico presenzia una morte anteriore agli eventi rappresentati sulla scena, che influenza in modo determinante il loro corso: la morte del figlio di Michele e Giorgetta nel Tabarro, ancora quella del figlio in Suor Angelica, e quella di un Buoso Donati appena spirato in Gianni Schicchi. Anche Turandot è perfettamente cosciente di come e quanto il suo destino sia legato a vicende di un passato addirittura  remoto: «In questa Reggia, or son mill’anni e mille, | un grido disperato risuonò. | E quel grido, del fior della mia stirpe, | qui nell’anima mia si rifugiò! | Principessa Lo – u – ling, | Ava dolce e serena, che regnavi | nel tuo chiuso silenzio, in gioia pura, | e sfidasti inflessibile e sicura | l’aspro dominio, tu rivivi in me!». Michele Bianchi, Il caso Trittico. Vitalità della morte e declino della vita, in: Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, cit., pp.215-29.

52 Abbagnano, pp.448. Abbagnano fa qui riferimento all’Evoluzione creatrice del 1907, ma si ricorda che Materia e memoria è del 1986.

53 «[La teoria della relatività ristretta di Einstein, del 1905] è relatività perché la velocità ha un significato solo relativamente ad un osservatore, non essendoci una ‘quiete assoluta’ rispetto a cui misurare un ‘moto assoluto’. Non esistono nemmeno uno ‘spazio assoluto’ o un ‘tempo assoluto’, poiché entrambi dipendono dalla velocità e pertanto hanno un significato solo relativamente all’osservatore. Nondimeno, malgrado questa assenza di assoluti, le leggi della fisica erano ancora valide per ‘sistemi di riferimento’». Relatività ristretta, in: Isaac Asimov, Cronologia delle scoperte scientifiche, traduzione di Nicoletta Spagnol e Roberto Sorgo (Asimov’s Chronology of Science and Discovery, Isaac Asimov 1989 – Pan 1991), Edizione Club, Bergamo 1993, pp.458. Asimov precisa poi che «la teoria è ristretta (o speciale) perché si limita al caso particolare dei corpi che si muovono a velocità costante». Non è poi un caso che Bergson si sia interessato al pensiero di Einstein, con il suo Durata e simultaneità, del 1922.

                    54 Adorno aveva accostato Puccini all’operetta nel 1961/62,8 ammirare l’opera pucciniana rimorchiandola all’operetta,9 ed alla musica leggera,10 senza rilevarne meriti intrinseci e di più alto spessore non solo è estremamente riduttivo ma anche negativo per una corretta comprensione e valutazione del compositore lucchese. Eclatanti, poi, le stroncature di Kerman, per il quale opere come Tosca e Turandot sarebbero «banalità da caffè concerto». Joseph Kerman, L’opera come dramma, trad. di Sandro Melani (Opera as Drama, Joseph Kerman 1956-1984, The Regents of the University of California 1988), Einaudi, Torino 1990, pp.18 e 209.

55 Umberto Galimberti, Lapsus, in: Dizionario di psicologia, Torino, UTET 1999, pp.538-9.

56 Vedi: Michele Bianchi, Puccini ‘teologo’. Un dramma d’amore e di redenzione, in: Florilegium Musicae. Studi in onore di Carolyn Gianturco, a cura di Patrizia Radicchi e Michael Burden, I tomo, ETS, Pisa 2004, pp.37-47.

57 Sieghart Döhring, L’italianità di Puccini, traduzione di Laura Tirone, (Puccinis «Italianità», in Nationaler Stil und europaeische Dimension in der Musik der Jahrhundertwende, a cura di Helga de la Motte-Haber, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1991, pp.122-31), in: Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, pp.203-10: 208. La citazione è in: Casini, p.242. In verità, la «maniera allusiva» è da Casini riferita alla «formalizzazione in schemi di musica di consumo»: «Ma la reificazione formale si estende a buona parte della Tosca, in maniera allusiva». Interessante un’altra notazione di Döhring: «[…] La tecnica motivica di Puccini si differenzia dall’impiego tradizionale dei Leitmotive o delle ‘reminiscenze motiviche’. Questi ultimi si ritrovano solo come una sorta di ‘sovrastruttura’ la cui base è un mosaico di piccole cellule dagli intervalli caratteristici che si possono ricondurre a pochi moduli base. Ne nasce una rete di riferimenti che scompone a mo’ di caleidoscopio le unità tematiche o motiviche più grandi (tra cui i tradizionali Leitmotive o le ‘reminiscenze motiviche’) per conferire loro un movimento oscillante. Siffatti concatenamenti musicali non costituiscono unità basate su nessi logici». Sieghart Döhring, Il realismo musicale nella «Tosca», traduzione di Johannes Streicher, (Musikalischer Realismus in Puccinis «Tosca», «Analecta Musicologica», 22, 1984, pp.249-297), in: Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, pp. 33-77: 44.

58 Freud riconosce gli antecedenti filosofici della nozione di ‘inconscio’ (Leibniz, Kant, Shelling ma soprattutto Schopenauer), ma intende superarli: «La psicoanalisi ha quest’unico vantaggio: che non si limita ad affermare astrattamente i due principi, tanto penosi per il narcisismo, dell’importanza della sessualità e della inconsapevolezza della vita psichica, ma li dimostra mediante un materiale che riguarda personalmente ogni singolo individuo, costringendolo a prendere posizione di fronte a questi problemi». Siegmund Freud, Una difficoltà della psicoanalisi [1916], in: Opere, vol.VIII, Boringhieri, Milano 1976, letto in: Umberto Galimberti, Inconscio, in: Dizionario di psicologia, Torino, UTET 1999, pp.476-80: 477.

59 Il bacio dai connotati fortemente sessuali è una caratteristica che presenzia in tutte le opere di Puccini: a titolo esemplificativo, già Manon ricorda di essere stata «avvezza | a una carezza | voluttüosa | di labbra ardenti e d’infocate braccia». Con blasfema metafora, ella certifica a Des Grieux: «la mia bocca è un altare | dove il tuo bacio è Dio!». Che l’amore rappresentato in libretti non solo musicati ma forgiati dallo stesso Puccini non sia di stampo platonico lo ricorda il celeberrimo sfogo di Cavaradossi: «Oh! dolci baci, o languide carezze, | mentr’io fremente | le belle forme disciogliea dai veli!». Per Carner, questo tipo di rimembranza in punto di morte «fornisce […] una prova impressionante […] della forza irrefrenabile che aveva per lui [Puccini] il puro erotismo». Carner, p.505.

60 «Siccome l’attività sessuale, a differenza di altre funzioni, ha bisogno dell’altro per potersi esprimere compiutamente, dal punto di vista psicologico l’evoluzione della sessualità coincide con l’evoluzione dei processi relazionali. In questo ambito il contributo più significativo è stato offerto dalla psicoanalisi che ha introdotto il concetto di sessualità infantile a partire dalla relazione duale madre-bambino. Ciò comporta un’estensione del concetto di sessualità che non è regolata esclusivamente dal funzionamento degli organi sessuali finalizzati al coito in vista della conservazione della specie, ma anche dal mondo della relazione che matura la personalità portandola dalla condizione predatoria infantile e onnipotente allo sviluppo genitale che si concreta nell’incontro con l’altro, per poi trovare ulteriori espressioni mediate dalla simbolizzazione e dalla sublimazione». Galimberti, Sessualità, in: Dizionario di psicologia, cit., pp.869-71: 870.

61 Freud spiegherebbe però il comportamento dell’isterica «figlia del cielo» con il meccanismo della ‘sublimazione’, cioè il trasferimento dell’istinto sessuale in direzioni eccentriche. Nella fattispecie, il disprezzo verso i suoi pretendenti ed il godimento nel metterli alla prova per eliminarli cruentemente. Oltre ad essere quel capolavoro che è e che ancor di più sarebbe stato se Puccini non avesse lasciato incompiuta l’opera, la favola della principessa cinese è anche un’esemplificazione freudiana perfettamente teatralizzata. L’analisi psicanalitica ha dunque i suoi appigli, e Mosco Carner non si lascia ovviamente sfuggire l’occasione per notare come «Turandot [sia] mossa da impulsi contradditori e tuttavia complementari, proprio come Calaf e gli altri corteggiatori sono spinti dall’ambivalenza Eros-Thanatos, un motivo psicologico altrettanto potente nella concezione drammatica di Puccini». Carner, pp.623-4.

62 «La sua [di «E lucevan le stelle»] analisi particolareggiata mostra che Puccini è un artista che pensa, anche là dove molti esegeti vogliono vedere solo una concessione superficiale ai cantanti e al pubblico. ‘Lacrime e sospiri’ per il compositore non sono il fine ma il mezzo espressivo di rappresentazione di un’idea drammatica. […] Proprio in contrapposizione allo stereotipo di Puccini come musicista dell’effetto, il tema centrale della sua opera è la dimostrazione della fragilità e della finitezza dei sentimenti. […] E’ sufficiente osservare la convergenza dei mezzi rappresentativi e del contenuto della rappresentazione, la quale potenzia l’effetto complessivo. Ciò vale per l’opera di Puccini in generale, ma nel fatto che il processo di ‘disillusione’ diventi il principio drammaturgico di un atto intero e che lo determini a tutti i livelli si può cogliere il significato peculiare di Tosca». Döhring, Il realismo musicale nella «Tosca», cit., pp.63 e 77.